L’Iran dopo Soleimani: storia di un prevedibile destino. Il martirio del carnefice
di Valeria Rando

All’indomani delle elezioni iraniane, le undicesime nella storia della Repubblica islamica, il Parlamento si prepara alla guerra. Che sia indossando la divisa militare o le più allarmanti vesti clericali, poco importa. Soprattutto in uno Stato in cui la classe dei mullah detiene le redini del potere politico e il capo dei pasdaran – quel Soleimani rimasto nell’ombra sino al suo assassinio, lo scorso 3 gennaio – viene venerato come un santo. Anzi, tanto più semplice e spontanea è la venerazione se a causarne la morte, a battezzarne il martirio, è il nemico per eccellenza: l’America, meglio nota agli iraniani come il Grande Satana. E in questa reciproca e rischiosa personificazione del potere, in questo scontro diplomatico che le semplificazioni guidate dall’emozione rischiano di ridurre al duello Trump-Soleimani, è facile che le piazze di popolo scese a manifestare consapevolmente contro un regime liberticida si affollino d’improvviso di schiave masse informi. Ferite nell’orgoglio, dunque impulsive, esaltate. E soprattutto, in quanto acefale, incapaci di immaginarsi prive di un capo.
Anche se il capo era un killer seriale, e la ghigliottina un probabile strumento di liberazione. Soleimani è stato infatti un indomito generale alla guida della Forza Quds, una formazione militare operante al di fuori del territorio di Teheran e impegnata, tra Afghanistan, Siria, Iraq e Libano, a difendere e divulgare i principi raggiunti dalla Rivoluzione khomeinista nel 1979. Nominato direttamente dalla Guida Suprema, il leader di una forza di tale portata – con compiti militarmente estesi e politicamente delicatissimi – non poteva che essere un fedelissimo e rigoroso sostenitore del regime, considerato da molti modesto, frugale, sinceramente devoto alla causa del suo Paese. Dunque, necessariamente intriso di indubbio fervore religioso e di cieca fiducia nel sistema. Ragion per cui, dopo aver sostenuto i curdi iracheni contro Saddam Hussein e supportato in Afghanistan i nemici del governo di Najibullah, dopo aver addestrato le milizie filogovernative in Iraq e in Siria nella sanguinosissima guerra all’Isis, sembrò categorico tentar di sopprimere non senza brutalità ogni tentativo di opposizione al disegno che l’Iran – erede dell’antico impero persiano – pare ancora ostinarsi a serbare per sé. Essere, cioè, il baluardo contro l’infiltrazione americana in Medio Oriente. Sebbene per farlo abbia spesso finito col contraddirsi, macchiandosi della stessa colpa di cui da tempo accusa gli Stati Uniti: la violazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione dei popoli mediorientali. Non solo, infatti, il generale del popolo fu il responsabile della trasformazione dell’Iraq in un campo di battaglia dopo la sconfitta dei soldati di Saddam; non solo, più recentemente, è stato il mandante dei cecchini incaricati di far fuoco sulla folla di studenti manifestanti a piazza Tahrir, a Baghdad: il «martire della Rivoluzione», così definito dall’ayatollah Khamenei, è stato l’architetto della repressione in difesa del regime di Bashar Assad in Siria; ha orchestrato la guerra in Yemen, una delle più critiche dal punto di vista umanitario dei nostri tempi; è spiccato tra i massimi fautori dell’apparato militare di Hezbollah in Libano, partito macchiatosi di violente soppressioni delle proteste che dallo scorso ottobre infiammano il Paese.
Con la tragicomica conclusione, da parte delle due potenze rivali, di una reciproca denuncia di terrorismo: religioso e fondamentalista l’uno, economico e accecato dal capitalismo l’altro. Ma entrambi, loro malgrado, così simili nella folle isteria neocoloniale che affligge i grandi imperi all’epilogo.
Con l’assassinio di Soleimani la Repubblica islamica non è stata colpita solo alla testa: ma anche, e forse più gravemente, nell’orgoglio. L’inatteso attacco statunitense ha finito con l’essere percepito non come un monito né un’astuta strategia diplomatica – bensì come un insulto; un’odiosa smania di potere; un colpo sferrato dritto al senso dell’onore di una nazione: e che nella nazione brucia come una strage interiore. Provocando come insperata reazione l’unificazione delle piazze in rivolta contro il Grande Satana in abito scuro: anche di quelle che fino a qualche giorno prima protestavano contro lo stesso regime iraniano, denunciandone criticità e corruzione. Una volta ucciso, il carnefice del popolo è diventato padre del popolo – e da spietato assassino si è trasformato in vittima, martire, nuovo eroe militare di una nazione offesa. Risultando paradossalmente più celebre – dunque agli occhi degli americani pericoloso – da morto di quanto non lo sia stato da vivo.
Eppure sarebbe un errore considerare la condivisa furia contro l’America come un tacito sostegno al regime. Dei milioni di persone scese in piazza per piangere la salma del leader, ben pochi si possono considerare suoi sostenitori. E questo proprio a causa dell’incapacità gestionale di un governo che in più occasioni ha dato prova della sua spietata inadeguatezza, causando da novembre centinaia di morti allo scopo di rendere insopportabile il prezzo dello scontro a chi osa minacciare il regime. Ma a quel regime inserito da Bush nella lista dei nemici dell’America nota come “asse del male”, Trump, pur senza volerlo, ha fatto un favore. Perché c’è solo uno strumento in grado di calmare l’odio di piazza quando la repressione del governo non funziona: ed è un odio più grande.
È così che si scrive il martirologio di Soleimani: perdonandogli, tra le lacrime, ogni efferatezza. Ed ergendolo a simbolo di una discutibile esibizione d’orgoglio imperiale. Senza badare al fatto che le vittime più vulnerabili, passate le elezioni parlamentari con risultati prevedibilmente a favore delle forze conservatrici, i veri sconfitti, in questa guerra ch’è ancora una guerra di deterrenza e di minacce intimidatorie, sono loro: gli iraniani. I fautori e al contempo gli oppressi della Rivoluzione. I sostenitori e i ribelli della Repubblica islamica. Le ragazze truccate e quelle costrette in un informe chador. I progressisti a cui non importa più avere rappresentanza politica. I rivoltosi costretti al silenzio e che adesso, sconfitto il tiranno, in silenzio scelgono di restare: perché all’oppressore d’oltreoceano preferivano l’oppressore connazionale. Per dirla freudianamente, gli eterni prigionieri del padre defunto.


