Quando c’erano loro

La nostalgia della dittatura: Gheddafi e Mussolini allo specchio

di Valeria Rando


In un reportage di Lorenzo Cremonesi dalla Libia leggevo di come spesso accada che, ad essere liberati con le bombe e dimenticati per anni in mezzo alle macerie, si finisca per rimpiangere la vita di regime. È così che fiorisce la nostalgia della dittatura. E nella Sirte passata nelle mani del generale Haftar, acclamato come un liberatore dal giogo dei miliziani di Misurata, il nome di Gheddafi ormai non è più un tabù: ed è a suo figlio Saif, secondogenito e mancato erede, che le speranze d’un popolo abituato a nient’altro che all’oppressione adesso si volgono.

In tanti dicono che la Libia, oggi matrice di puzzo di morte e corpi in putrefazione, quando c’era lui, non aveva alcun odore. Certo, non profumava di libertà: e la primavera che nel 2011 ne portò la caduta sembrava portare con sé l’aroma d’una nuova fioritura – prima di estinguersi anch’essa in un deplorevole tanfo di sangue. Ma intanto si aprivano cantieri, nuovi e maestosi palazzi spuntavano come funghi, passeggiando per le strade non si rischiava di finire sotto una bomba, le donne si spogliavano dei loro veli, i pozzi petroliferi davano i frutti che il malcapitato impero italiano non aveva avuto il tempo di cogliere. Citando un luogo comune che spesso appanna le menti di chi rimpiange il ventennio fascista – forse dimenticando delle repressioni, delle violenze inaudite, delle persecuzioni che ne tormentarono i dubbiosi: bada bene, non solo i dissidenti – i treni, beh, quando c’era lui, il nostro lui, arrivavano in orario. E così per i televisori, le automobili, i conti in banca, le scuole e le università e gli ospedali gratuiti: meccanismi funzionanti in un regime di repressione delle libertà e che in un’epoca in cui siamo lasciati liberi persino di dimenticare paiono mancare come il pane nel dopoguerra. Con la differenza che l’odio di chi soffre la fame, oggi, e non va a scuola né può permettersi le cure più elementari, non è rivolto a chi il pane glielo strappò via insieme alle libertà: ma a chi, invece, trasportando sacchi pieni zeppi di farina bianca, prometteva quel tanto agognato benessere dal nome democrazia. Finendo per rapinare, saccheggiare, stuprare, terrorizzare chi s’illudeva che uno straniero potesse davvero portare la pace dopo le atrocità di una guerra civile: e dando ragione a chi, nello straniero, non seppe mai scorgere altro che l’ennesimo colonizzatore insediatosi per fare razzie. Per distruggere, dimenticandosi di ricostruire.

E come liberarsi dai presunti liberatori, se non acclamando chi promette di risolvere il disordine d’una democrazia malata riportando l’Italia all’efficienza del fascismo, la Libia al vigore di Gheddafi?

Son tanti, al pensarci, i tratti comuni tra i due dittatori: abilissimi comunicatori, s’impegnarono nella costruzione della propria immagine con una cura da rasentare il fanatismo. Nei discorsi alla radio, nelle fotografie distribuite per le strade, al cinema e in televisione, il carisma che mai dovrebbe mancare a un leader s’addensava in una frase carica di retorica, un monito alle famiglie sull’educazione dei figli, ai compatrioti sull’odio per lo straniero, ai cittadini sullo sprezzo per le istituzioni, i parlamenti, le elezioni. In una foto a torso nudo scattata nell’atto di mietere il grano, e senza dare segno di sforzo, così come nei filmati di una partita a football in cui lui, il dittatore eclettico e talentuoso, teneva brillantemente testa a un’intera squadra di giocatori professionisti. Insomma, tanto s’assomigliarono nell’ossessione per la propaganda continua di chi teme di essere scalzato dal trono con la stessa violenza con cui, prima di lui, un altro capo osservava inerme il suo epilogo.

Non solo: la rivoluzione con cui entrambi arrivarono al comando – abusando dell’aura di eroismo che circonda la parola dei movimenti popolari, della liberazione dalle catene, della conquista delle libertà – altro non fu che uno studiato, vigliacco, disonesto colpo di stato. La mossa furtiva di ladri di potere che, in uniforme e con la minaccia degli eserciti, si ergono a liberatori del popolo e occupano il posto scaldato per secoli da governi via via più impotenti: e a cui basta una marcia messa in scena sulla capitale, o la furtiva uscita di ufficiali dalle caserme, durante la notte, ad occupare le sedi vacanti del potere precedente, per convincersi a farsi cacciare. E non è al re, in questi imbrogli che si dicono rivoluzionari, che si finisce per tagliare la testa: ma ai legittimi partiti politici, ai sindacati, alle associazioni. Insomma, a tutto il popolo brutalmente cancellato dalla narrazione d’una liberazione nata dal basso, e destinato a subire venti o quaranta o chissà quanti altri asfittici anni di tirannia.

Ma basta poco, talvolta, perché il mito del regime, della riconquista d’una gloria perduta, torni a brillare anche dopo decenni di repressione. Basta, ad esempio, che un altro furto di potere travestito da rivoluzione – e acclamato, festoso, come parola dei movimenti popolari e liberazione dalle catene e conquista delle libertà – non mostri la stessa faccia di usurpatore: non stupri le donne incredule d’esser finalmente emancipate, non bombardi le città illuse d’essersi fatte aperte, e non le lasci poi entrambe – le donne stuprate e le città bombardate – sole a leccarsi le ferite con null’altro che un vago sentore di democrazia appreso distrattamente alla radio, in tv, o nel bar di paese. E senza che nulla sia realmente cambiato: perché per gli ultimi, pei poveri, che la miseria sia patita sotto regime o sotto democrazia non fa differenza. E anzi, più difficilmente si perdona la povertà, e più insoffribile è il senso di fame, se la povertà e la fame sopravvivono alla guerra – loro diretta causa solo in parte –, e vengono ignorate dalla demenza ubriaca di una nazione risorta.

Finché il male presente non cancella il male passato, e anzi lo giustifica, lo banalizza, lo perdona. Forse, persino, lo rimpiange. E guarda con orrore a come propri nonni hanno saputo violentare il corpo morto del tiranno; e seviziarlo, e martoriarlo, quando ormai avrebbe fatto pena a un bambino.

Il ricordo di piazzale Loreto e gli innumerevoli selfie dei ribelli col cadavere di Gheddafi, a Sirte, quella stessa Sirte in cui oggi son tornati ad acclamarlo, sono strumenti pericolosi che rischiano di umanizzare il mostro: di ridurlo alla vigliaccheria dell’uomo comune che per timore della sconfitta si nasconde in un viadotto o, indossato un elmetto della Wehrmacht, si finge soldato e tenta la fuga. Strumenti che permettono di convincersi di quanto l’odio del popolo possa apparire bestiale, se non contestualizzato; di dimenticare ciò che gli italiani e i libici di qualche decennio fa giurarono di non dimenticare mai; di ridurre Gheddafi e Mussolini a due dittatori morti per uccisione violenta per mano dei loro antagonisti sostenuti da alleati stranieri: e quasi ingiustamente, ché quando c’erano loro si stava persino meglio. Insomma, di perdonare a quel corpo oltraggiato e brutalmente esibito le atrocità che popoli interi furono costretti a subire – e di guardarlo, e di compatirlo, con lo sguardo nostalgico di chi, dinnanzi al tiranno sconfitto, non vede altro che un uomo: e che dell’uomo al potere trascura distrattamente la crudeltà.

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