Se l’India muore

Nel Paese noto per la diversità delle sue culture si diffonde un’ondata di nazionalismo: e i musulmani ne sono la vittima principale

di Valeria Rando

Jama Masjid, moschea a Fathepur Sikri, Agra

C’era un tempo in cui l’India non esisteva. O meglio, respirava spontaneamente, e spontaneamente fioriva, inconsapevole del suo stesso stare al mondo. Ma per l’Occidente, banalmente, non c’era. Gli stati nazione, allora, erano di là da essere inventati, lontani dal forgiare le menti dei popoli con il loro delirio nazionalista, e l’identità degli individui, i loro nomi, non si modellavano sull’astrazione di un confine tracciato sulla carta: ma sulla naturale morfologia degli spazi. Sui monti e sui fiumi, sulle tradizioni popolari tramandate all’ombra del focolare, sul modo arioso – o ritratto – di pronunciare una vocale. India fu il nome che gli antichi greci prima, e gli esploratori europei poi, attribuirono ai territori estesi al di là del fiume Indo, come a voler segnare il limite del proprio controllo cognitivo sul mondo uniformando brutalmente la vivacità culturale che oltre quel fiume, da migliaia di anni, respirava e fioriva. E riducendola, appunto, alla vaghezza della parola singola che da sola non sa contenere le trame intricate di popoli e culture che sulla difformità della terra andavano costruendo la propria identità.

Se India fu il nome con cui l’invasore, dall’esterno, tentò di definire ciò che per definizione è indefinibile – ossia la diversità –, i nomi con cui gli indiani d’allora chiamarono i loro territori furono tanti e differenti, ciascuno specchio di un particolare tipo di suolo, clima o ecosistema. Il Doab, termine che in sanscrito significa «le due acque», indicava la terra compresa tra il Gange e lo Yamuna; il Punjab, la regione dei cinque fiumi; il Sindh, la valle del fiume Indo, nonché casa dei monti Vindhya e dell’Himalaya; il Bharat, nome mitico dell’epoca vedica con cui l’India soleva dirsi dall’interno. E sotto questi nomi così evocativi conviveva una straordinaria pluralità di fedi e comunità religiose: induisti, musulmani, cristiani, giainisti, buddisti, oltre a svariate aggregazioni tribali. Indù, allora, non era un termine religioso – ma territoriale, e come tale mirava ad accomunare in un vincolo quasi fraterno tutte le comunità che, pur parlando lingue diverse, come tutt’ora fanno, avrebbero saputo riconoscersi tra mille grazie al loro singolarissimo modo di vivere e di concepire la vita: spiritualmente, moralmente e concordemente alle più varie e molteplici forme della natura.

Almeno finché l’astuto colonizzatore inglese e l’ombra della partition non giunsero a snaturare tale difformità, imponendo il modello di un territorio diviso e abitato da due sole culture ufficialmente definite e incapaci di convivere in pace. Tra i musulmani guidati unicamente dalla legge scritta del Corano e i gentoo, termine che inizialmente indicava gli induisti, venne a crearsi una frattura fasulla, un’ostilità inconsueta, un apartheid fondato sulla menzogna del quale l’India contemporanea porta ancora il peso. E segnando così un confine innaturale senza curarsi di lasciar sbattuti fuori – o intrappolati dentro – tutti i musulmani credenti al ciclo delle rinascite o gli induisti che rifiutano di mangiar carne di maiale e bere alcolici perché concittadini dei figli di Allah.

Oggi, nell’India invasa dal nazionalismo estremista indù del primo ministro Narendra Modi, sono loro, i figli di Allah, i musulmani indiani, a pagarne il prezzo più alto. In un’India in cui si progetta di applicare il «modello Israele», con la pretesa d’uno stesso ancoraggio ad una tradizione razziale monolitica non scritta, pare non esserci spazio per la minoranza islamica. E la legge sulla cittadinanza proposta dall’attuale governo lo scorso dicembre lo afferma sfacciatamente, e senza indugi. Nell’India agli induisti, in cui risorge il culto per l’assassino di Gandhi, la cittadinanza verrà assegnata alle popolazioni indù, sikh, buddiste, giainiste, parsi e cristiane emigrate da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan prima del 2015. I musulmani ne saranno esclusi, costituendo formalmente la maggioranza etnica nei paesi di provenienza: poco importa se perseguitati e calunniati. Con la messa a repentaglio della sicurezza anche per i cittadini di fede islamica che di fatto continuano a costituire la minoranza più popolosa del Paese.

Le violenze verso i musulmani, da tempo latenti in stati come il Gujarat, di cui Modi fu all’epoca presidente – dopo aver militato per anni tra le fila dell’RSS, partito fondato sotto le influenze del nazifascismo – sono esplose d’un tratto sotto l’onda sorda d’un evento epocale: l’inattesa revoca dell’autonomia allo stato del Jammu e Kashmir, lo scorso 5 di agosto. La regione, confinante con il Pakistan e teatro di scontri violenti tra le due nazioni sorelle per assoggettarne il suolo sotto il proprio controllo, sin dalla proclamazione della partizione dell’Impero britannico ottenne la garanzia di uno statuto speciale: un principato guidato da un capo di stato induista, ma a maggioranza musulmana. Da allora, tra conflitti civili e brutali repressioni da parte di ambedue le autorità, ha rivendicato la sua indipendenza costituzionale, amministrativa e demografica, sopravvivendo a stento nella ferita aperta della linea di controllo tra le due zone di influenza. Anche se questo ha significato e significa tutt’ora vivere sotto un’occupazione in cui i militari continuano a macchiarsi di gravi violazioni dei diritti umani: a intimidare, rapire, torturare, stuprare, protetti dall’impunità che copre le forze di sicurezza nella strategia globale della lotta al terrorismo. E che invece andrebbe chiamata lotta all’islam: così, senza esitazione. Una farsa spietata volta a legittimare il sentimento diffuso di islamofobia che non ha fatto altro che dilagare da quando Modi e la sua retorica antislamica sono saliti al governo, uccidendo l’India e il sogno che il Mahatma Gandhi, originario del Gujarat, induista, musulmano, buddista e cristiano insieme – dunque candidamente indiano –, serbava per lei.

Revocarne l’indipendenza senza ricorrere allo strumento che di una democrazia dovrebbe essere costitutivo, ossia il diritto di voto, ha costretto migliaia di persone a sprofondare in quella lacerazione che ancora sgorga di sangue civile, e senza averlo scelto. A trovarsi – musulmani e non indiani: ma kashmiri – di colpo parte di uno stato che non ne riconosce la legittimità: né ideologica né religiosa né culturale. A vedere il proprio diritto alla cittadinanza minacciato dall’obbedienza ad un governo che di fatto non riconoscono. Ad essere sottoposti a censimento, controlli e inchieste porta a porta da parte di funzionari tassativamente indù pronti a schedarli, a spaventarli, a ghettizzarli, in nome di un progetto di nazionalizzazione delle culture che s’impone di estirpare dal suolo indiano ogni stilla di opposizione. E con loro tutti i 138 milioni di musulmani imprigionati in un regime che non li vorrebbe.

E come spesso accade, a decretare la vittoria dell’ideologia sulla morale, più che le leggi, più che i decreti, più che i comunicati dei potenti, sono le azioni quotidiane del popolo. Sono i gesti di bullismo nelle scuole, le incursioni dei fanatici nelle città, di notte, a poche ore dalle celebrazioni di una festa religiosa. Sono i ragazzi accerchiati, picchiati, e costretti a pronunciare parole di dedizione per divinità in cui non credono: om namah, Shiva, sia fatta la tua volontà. E che loro non pronunciano, ciechi d’orgoglio islamico come sono. E allora ancora insulti, ancora botte. È la paura delle istituzioni, la sfiducia per le forze di sicurezza, la triste certezza di non poter denunciare alla polizia né ai giornalisti, perché filogovernativi: dunque non banalmente induisti, ma terribilmente islamofobi.

Eppure, in questa escalation inquietante di eventi razzisti e discriminatori, una fiaccola di resistenza s’è accesa. Le piazze di Delhi, seguite dalle principali città del paese, si sono popolate di cortei di studenti, uomini e donne, di ceti abbienti e subalterni, per manifestare con rabbia il proprio dissenso. L’incostituzionale legge sulla cittadinanza ne è stata la miccia. E sebbene la risposta repressiva del governo e delle forze di polizia non si sia fatta attendere – causando decine di morti e feriti –, non è scemato il coraggio di chi si batte per l’assurdo e naturalissimo diritto d’abitare la propria terra. Anche se l’India muore: perché Antigone, al contrario, non muore mai.

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