Primo giorno di primavera

Semi ormai diventati fiori

di Grazia Enerina Pisano


Dalle lacrime di una madre raccolte da Don Luigi Ciotti (fondatore di Libera), 25 anni fa nacque la giornata dell’impegno: quella donna si chiamava Carmela, mamma di Antonio Montinaro, che non udiva mai pronunciare il nome di suo figlio, incluso insieme a tanti altri negli “uomini della scorta” di Giovanni Falcone, ragazzi che insieme al magistrato persero la vita nella strage di Capaci il 23 maggio 1992: Antonio (29 anni), Rocco Dicillo (30 anni) e Vito Schifani (27 anni). Così, dal 1995, il 21 marzo non è più soltanto il primo giorno di primavera ma giornata del ricordo di tanti semi, ormai diventati fiori. Il 1° marzo 2017, la Camera dei deputati ha ufficializzato l’esistenza della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”, dimenticando però l’aggettivo “innocenti”. Ricordo delle vittime innocenti di mafia: fiori che non hanno potuto conoscere questa primavera, elencati in una lista che ogni anno diventa sempre più lunga. Sono tante, sono troppe le vittime innocenti di mafia: sono circa 900 le persone di cui si conosce il nome; ma tante altre sono quelle occultate, sciolte, dissolte dalla cosiddetta “lupara bianca”. 

Ogni 21 marzo, in diverse città d’Italia, in una lunga marcia della pace, a suon di musica e canti, quelle vite continuano a camminare sulle nostre gambe: vite spezzate ma mai dimenticate. In questo primo giorno di primavera, bandiere colorate sventolano al cielo, i palloncini volano nell’immenso azzurro, le mani formicolano per il troppo applaudire, la voce manca per il troppo cantare, le gambe cedono per il troppo ballare, gli occhi bruciano per le troppe lacrime. Ma si deve continuare a camminare, a cantare, a resistere, nonostante tutto.

Erano fiori da recidere per garantire la sopravvivenza delle attività mafiose: linfa vitale inarrestabile che, ancora oggi, in giornate come questa, nonostante pandemie e crisi, ricordiamo.

Germogli mozzati come Carlo Guarino e suo figlio di 3 anni Vito Guarino, uccisi il 3 gennaio 1949 a Partinico (PA) da una banda di “banditi”; come Serafino Lascari (15 anni), Giuseppe di Maggio (13 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza la Fata (8 anni), caduti a colpi di mitra, insieme ad altri 27 feriti e una decina di morti, nella strage di Portella della Ginestra (PA) durante la manifestazione del 1 maggio del 1947, organizzata contro lo sfruttamento del latifondo; come Domenica Zucco, uccisa a soli 3 anni, il 3 ottobre 1951, in un agguato al padre a San Martino di Taurianova (RC); come i fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro di 10 e 19 anni, vittime della strage di Godrano (PA); come Caterina Nencioni di soli 50 giorni di vita, Nadia Nencioni di 9 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 e Angela Fiume di 36, morti nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze, a seguito dell’esplosione di un Fiat Fiorino imbottita di esplosivo; come Angelica Pirtoli, bambina di 2 anni, atrocemente uccisa insieme alla madre il 20 maggio 1991 a Lecce, su comando della moglie di un boss con cui la mamma aveva una relazione; come Fabio De Pandi, ucciso a 11 anni, il 21 luglio 1991, a Napoli, in uno scontro tra clan. Eccola la mafia che protegge le donne e i bambini!

Vite mozzate poiché nel posto sbagliato al momento sbagliato, come Concetta Matarazzo, uccisa a 37 anni, travolta dall’auto di due pregiudicati a Giugliano (NA) il 12 ottobre 1996, giovane donna che nulla aveva a che fare con la guerra tra clan della camorra; come Davide Sannino, ucciso a 19 anni, il 19 luglio 1996 a Massa di Somma (NA), perché aveva osato guardare con aria di sfida il rapinatore (in nome di tre orologi di basso valore); come Domenico Bruno, ucciso il 22 marzo 1991 a Petilia Policastro (KR), per aver assistito ad una rapina: un testimone scomodo; come Nicholas Green, ucciso a Messina il 1 ottobre 1994, quando la macchina su cui viaggiava fu scambiata per quella di un gioielliere da rapinare. Persone comuni che nulla avevano a che fare con la mafia, che vivevano la propria vita nell’esercizio della libertà individuale e che hanno avuto la sfortuna di vedere o ascoltare qualcosa di troppo.

Cittadini responsabili uccisi perché capaci di svolgere al meglio il proprio dovere, come i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ucciso nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, in cui persero la vita Agostino Catalano (43 anni), Emanuela Loi (24 anni), Vincenzo Li Muli (22 anni), Walter Eddi Cosina (31 anni) e Claudio Traina (27 anni); come il generale Carlo Alberto dalla Chiesa nominato prefetto di Palermo per combattere la mafia e ucciso il 3 settembre 1982; come Don Pino Puglisi, assassinato il 15 settembre 1993 per aver lottato contro la mafia nel quartiere Brancaccio (PA); come Pio La Torre, deputato del PCI e sindacalista CGIL, ucciso il 30 aprile 1982, impegnato fin da giovane nella lotta a favore dei braccianti: fu l’ispiratore della legge che introdusse il reato di associazione mafiosa (legge Rognoni-La Torre) e la relativa confisca dei beni; come Placido Rizzotto, assassinato il 10 marzo 1948, per fermare la ribellione dei contadini da lui organizzata contro l’oppressione mafiosa nel latifondo; come Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980, presidente della regione Sicilia nel 1978: tentò di sanare la gestione dei contributi agricoli regionali. Funzionari di uno Stato cieco, persone con la schiena troppo dritta per poter essere piegate; ma infine spezzate nel vuoto delle istituzioni.

Giornalisti che ebbero il coraggio di denunciare e raccontare la verità: come Giuseppe Fava ucciso il 5 gennaio 1984 a Catania, autore di inchieste sugli affari politici ed economici che imbrigliavano la Sicilia; come Ilaria Alpi, inviata del Tg3, uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, a causa delle sue indagini sul traffico di armi e rifiuti tossici illegali in cui erano coinvolti anche l’esercito e alcune istituzioni italiane; come Giancarlo Siani che, a seguito dell’attivismo nei movimenti anticamorra e delle denunce delle attività criminali e dell’infiltrazione politica della camorra, fu ucciso a Napoli, il 23 settembre 1985, a soli 26 anni.

I nomi alla fine di quel lungo, lunghissimo elenco, appartengono agli ultimi, a quelli dimenticati perfino da Dio: sono i braccianti dei campi di pomodori delle sconfinate pianure pugliesi, vittime perfette del caporalato. Sono i migranti morti il 6 agosto 2018, stipati su un furgoncino capovolto al ritorno dai campi di Foggia, dopo una giornata di dodici ore di lavoro, per €1,50/l’ora: sono Amadou Balde di 20 anni, Aladjie Ceesay di 23 anni, Moussa Kande di 27, Ali Dembele di 30, Lhassan Goultaine di 39, Anane Kwase di 34, Toure di 21, Lahcen Haddouch di 41, Awuku Joseph di 24, Ebere Ujunwa di 21, Bafoudi Camarra di 22, Alagie Ceesay di 24, Alasanna Darboe di 28, Eric Kwarteng di 32, Romanus Mbeke di 28 e Djoumana Djire di 36 anni.

Sono tante, troppe le storie da raccontare.

Si leggono anche i nomi di spighe al vento che hanno avuto l’ardire di cambiare la propria condizione: è il caso di Silvana Foglietta che dopo la morte del marito (boss della Sacra Corona Unita) decise di collaborare con la giustizia, ma fu uccisa il 7 febbraio 1991 e il suo corpo mai ritrovato.

O la storia di Giuseppe Impastato, per noi amici “Peppino”, nato a Cinisi da Felicia (vera donna coraggiosa del sud) e dal mafioso Luigi Impastato, legato in affari con il triumviro Tano Badalamenti. Peppino ebbe il coraggio di scegliere da che parte stare, non quella della famiglia di sangue, non quella del traffico di eroina che alla fine degli anni ’80 diventava il vero business mondiale, non quella degli appalti pubblici truccati o degli accordi politico-mafiosi nelle città di “mafiopoli” che portarono al sacco di Palermo o alla costruzione dell’aeroporto Punta Raisi. Peppino decise di resistere e dalla stazione Radio Aut gridava a tutti che la mafia è una montagna di merda. Una montagna talmente alta che lo trasformò in uno dei più grandi suicidi della storia: ma Giuseppe Impastato non era un suicida, Peppino fu fatto saltare in aria sui binari della ferrovia nei pressi di Cinisi, nella notte del 9 maggio del 1978, su ordine di Gaetano Badalamenti (riconosciuto colpevole solo nel 1997). Purtroppo, in quella notte buia dello Stato italiano, moriva anche l’onorevole Aldo Moro e nessuno pensava al piccolo povero “suicida” comunista figlio di mafioso della cittadina di Cinisi.

Ma tutti, Peppino, le vittime innocenti di cui si conosce l’identità e le tante altre scomparse nell’assenza dello Stato, continuano a vivere, ricordandoci sempre da che parte stare: perché il confine tra bene e male è netto e oggi nessuno può permettersi di dire “Io non lo sapevo”.

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