Il fascismo è superato

O almeno così vogliono farci credere

di Grazia Enerina Pisano

La quotidianità come eravamo abituati a considerarla non esiste più. Le nostre vite sono state messe in pausa. Il mondo esterno appare troppo distante per preoccuparcene.

E nella giornata di ieri Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato, membro del “partito” Fratelli d’Italia, dichiara: “Con alcuni parlamentari abbiamo avanzato una proposta rivolta a tutti, senza distinzioni politiche e culturali: da quest’anno il 25 aprile diventi, anziché diviso, giornata di concordia nazionale nella quale ricordare i caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna. E in questa data si accomuni anche il ricordo di tutte le vittime del Covid-19”. Non soddisfatto, aggiunge: “Sarebbe il modo migliore per ripartire in un’Italia finalmente capace, dopo 75 anni da quel lontano 1945, di privilegiare ciò che ci unisce e ci rende tutti orgogliosi di essere italiani. Nel ricordo dei caduti, chi vorrà, sabato prossimo potrà listare a lutto un tricolore e cantare la canzone del Piave che da sempre le Forze armate dedicano ai caduti di ogni guerra”.

Ma facciamo un po’ d’ordine, non quello ideologico, che facilmente potrebbe essere scambiato per propaganda, ma storico.

Il 25 aprile è festa nazionale. Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo e, poiché l’Italia con la sua Costituzione è un paese dichiaratamente antifascista, il 25 aprile è festa nazionale. Se non ci fosse stato il fascismo e se non ci fosse stata la necessità di liberare l’Italia dal regime totalitario fascista, il 25 aprile non sarebbe stato un giorno di festa nazionale. E sicuramente l’Onorevole La Russa avrebbe facilmente trovato un altro giorno per ricordare i caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna.

Ma il 25 aprile non è solo la Festa della Liberazione, il 25 aprile segna anche la fine della Repubblica Sociale Italiana, stato fantoccio governato da Benito Mussolini, ricordata ancora oggi, dopo 75 anni da quel lontano 1945, con un bel braccio teso dai nostalgici camerati.

L’articolo 21 della nostra Costituzione, figlia della sincronia intellettuale dei padri costituenti rappresentanti di tutte le forze politiche (dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista Italiano, dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria al Fronte dell’Uomo Qualunque), recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione… sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. Ma essere fascisti è o non è contrario buon costume? O meglio, affinché il senso del discorso non venga nuovamente scambiato per propaganda, nel caso dell’Onorevole La Russa, essere contro l’antifascismo è pro o contro il buon costume?

Certo, termini come “Unità Proletaria” o addirittura “Partito Comunista” potrebbero richiamare alla mente oscure realtà totalitarie baffute, ma gli ideali che animavano i combattenti della Resistenza erano ben diversi da quelli del “Grande Fratello”. I partigiani per lo più ventenni, provenienti da ogni estrazione sociale, volontari nella lotta armata al fascismo, appartenevano a differenti forze politiche, tutte però concordi nella lotta al regime, in nome di una Libertà vera e per tutti. E’ il caso delle Brigate Garibaldi, organizzate dal PCI; delle formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione; delle formazioni Giacomo Matteotti del Partito Socialista; delle Brigate Fiamme Verdi, nate autonome per iniziativa di alcuni ufficiali alpini, legate poi alla Democrazia Cristiana nelle Brigate del Popolo; le Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC; le formazioni azzurre, autonome e politicamente monarchiche e badogliane; le piccole formazioni legate ai liberali o quelle anarchiche o trotskiste, quali Bandiera Rossa. Non solo comunisti, non solo proletari, non solo socialisti, dunque. Ma anche appartenenti a quella Democrazia Cristiana non ancora infangata dall’individualismo e dalla sete di potere, o di gloria. Tutti, indistintamente, (r)esistevano in nome di un obiettivo comune, di una Libertà comune, al di sopra di ogni fazione politica. Perché al tempo non ci si chiedeva cosa fosse la destra o la sinistra, oggi concetti ridotti all’osso. Ma ci si domandava se fosse meglio morire prigionieri sotto regime o rischiare la vita e morire finalmente da uomini liberi.

I caduti nella Resistenza italiana sono stati complessivamente 44700, altri 21200 i mutilati o invalidi. 35mila furono le donne partigiane e di loro 1070 caddero in combattimento, 4653 furono arrestate e torturate, oltre 2750 deportate in Germania e 2812 fucilate o impiccate.

Certo, si potrebbe dedicare il 25 aprile a tutte le vittime di ogni guerra. Magari vittime che eseguivano solo gli ordini. Vittime senza esclusione alcuna.

In un’unica giornata, casualmente nella data del 25 aprile, si potrebbero passare in rassegna le vittime dell’eccidio di Marzabotto (BO), insieme ai morti dell’attentato di Via Rasella a Roma. Nell’appennino, in provincia di Bologna, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, i soldati tedeschi massacrarono 7 partigiani e 721 civili, cioè uomini, donne, vecchi e bambini inermi; mentre, a seguito di un’azione della Resistenza romana, il 23 maggio 1944, in Via Rasella furono uccisi 33 soldati tedeschi. A questi militari dell’esercito tedesco, il 24 maggio, seguì la rappresaglia tedesca consumata con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi 335 prigionieri estranei all’attentato e 10 casuali civili. Dieci uomini per ogni tedesco. O meglio, nazista.

E allora nel grande marasma del 25 aprile, tra tutte le vittime, senza esclusione alcuna, mettiamoci pure i morti della Guerra di Libia, della Guerra di Spagna, della Guerra di Grecia, della Guerra di Etiopia, della Guerra di Russia; e perché no, anche i morti di peste, colera, influenza e Coronavirus. Che tanto morti, sono morti, che differenza ci potrà mai essere?

Ricordiamo i caduti di tutte le guerre e tutte le vittime, senza distinzione alcuna. Per essere finalmente un’Italia unita, senza distinzioni politiche e culturali.

Purtroppo, però, le distinzioni politiche ci sono e oggi sono più nette che mai. Non saprei come spiegarlo ma, sebbene fieri di essere italiani, l’idea di sostituire Bella Ciao, con il motivetto postbellico del Piave che, calmo e placido, mormorava, al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio 1915, prima di una serie di disfatte nel corso della Prima Guerra mondiale, mi sembra una decisione un po’ audace. O meglio, una scelta che delinea nettamente le distinzioni politiche e culturali presenti all’interno del nostro paese.

Perché cultura, purtroppo, non è solo essere in possesso di un titolo o di una laurea, ma anche avere senso civico ed essere in grado di discernere il giusto da ciò che non lo è. Perché purtroppo, o per fortuna (questo dipende dai punti di vista), anche in questa storia c’è un bene e un male, come prescritto dall’articolo 4 della Legge Scelba. E, sebbene alcuni politici lo dimentichino, postando su Twitter la musichetta di una pubblicità di Sky a ritmo di Faccetta nera (vedi post di La Russa in data 14 aprile su Twitter), l’apologia di fascismo è un reato in Italia.

Ma per quanto il fascismo sembri superato, o almeno così vogliono farci credere, sulla lapide del cimitero di Casaglia di Monte Sole, rimane scritto “La nostra pietà per loro significhi che tutti gli uomini e le donne sappiano vigilare, perché mai più il nazifascismo risorga”. In quel paese in cui, nella chiesa di Santa Maria Assunta, si rifugiò l’intera popolazione: furono 195 le vittime, di cui 50 bambini, che diedero inizio alla Strage di Marzabotto, durante la quale nessuno fu risparmiato.

Marzabotto che, ancora oggi, con il suo Monte Sole, ospita ogni anno migliaia di uomini, donne e bambini pronti a scalare, cantare, ballare e ricordare.

Soprattutto ricordare.

Nel tentativo che la memoria non si perda nell’oblio del tempo e il fiore del partigiano fiorisca ancora.  

Elogio della paura

Su Natalia Ginzburg e sulla viltà della menzogna

di Valeria Rando


«C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all’improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie.»

È di Natalia Ginzburg la voce che leggete, cadenzata e composta come se stesse narrando una fiaba della sera dal titolo Il figlio dell’uomo. E che tuttavia colpisce, cauta e audace insieme, con la forza di un proiettile conficcato nella carne viva. È un elogio della paura, della brutalità del vero, dei sentimenti atroci di chi sopravvive alle macerie e non sa più fidarsi di un cielo sgombro di aerei. La storia dei figli di uomini che la guerra l’han conosciuta nelle questure; degli antifascisti per i quali il terrore ha avuto il suono d’una scampanellata notturna: pronta a disturbarne il sonno anche quando le fughe e le perquisizioni non avrebbero più avuto ragione d’esistere e l’incubo della casa quieta lasciata dietro di sé, nel silenzio della notte, si sarebbe finalmente estinto.

«Non guariremo più di questa guerra. È inutile. Non saremo mai più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto delle nostre case. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla.»

Vedete. Vedete e leggetela, la voce scarna e spigolosa della Ginzburg, e non abbiate timore di avere paura. Ve ne parlo come una che nei racconti di guerra si rifugia non per trovarvi inutili e speranzose assonanze, ma per fiutarvi il terrore del perseguitato, del confinato, del dissidente – e provare a capire quello dell’isolato, certo diverso ma non meno complesso, che il nostro tempo non ha il coraggio di raccontare. E non perché quella al virus sia una nuova guerra mondiale e i medici e gli infermieri i partigiani dei nostri giorni: ma perché la vostra generazione – quella degli adulti, degli insegnanti, dei filosofi e degli intellettuali – pare preferire la menzogna di un mondo quietato all’atroce brutalità dell’esitazione. La fermezza della finzione all’incertezza del dopo, al non saper rispondere ai bambini che ingenui ci chiedono come ci ritroveremo quando tutto sarà finito.

Pare che l’uomo non sappia vivere la sua condizione se non nell’attesa o nella nostalgia di tempi remoti. Pensateci. Fino a ieri, che vivevamo liberi e carnali e vivi per le strade aperte, la vostra letteratura parlava di silenzi, solitudini, guerre e peccati da espiare – e senza fatica. Mentre oggi, oggi che siamo silenziosi e penitenti in questa solitudine da scontare, le vostre bocche sono piene di parole come resistenza, libertà, carne e cielo – ma false e menzognere, non belle né vibranti quali dovrebbero essere. Come svuotate dei loro significati, e messe lì, esposte, a fingere di rassicurare gli animi inermi dinnanzi all’inquietudine dell’isolamento. Ma sottrarsi al presente per scappare  nell’inconsistenza di un sogno o di un ricordo non dovrebbe essere il compito dell’arte: soprattutto se dettato dall’inerzia di chi non vuol fare i conti con la propria storia. La letteratura non crea mondi altri per sfuggire al proprio, bensì per amplificare le emozioni che in questa dimensione siamo troppo borghesi per affrontare. Si nutre di intensità, pullula di mostri, creature fantastiche, storie tragiche e finali struggenti; è fatta di addii, di partenze, di distacchi forzati. Asseconda il sentimento del tempo, non lo dissolve nella cecità del codardo che copre di maschere e veli la realtà.

Eppure c’è chi mente e chi tollera che siate voialtri a mentire. Non avete che malsicurezza e timore della paura, e credendo di proteggerci vi ostinate a raccontarci delle case con le lampade sui tavoli e i vasetti di fiori e i ritratti dei cari che non crolleranno mai. Ma noi invochiamo parole nude, tremori, sentimenti esposti e verità. Vogliamo leggere nelle piaghe di queste strade ardenti di cemento e trovarci dentro la desolazione dei nostri animi. Vogliamo imparare che una casa è fatta di mattoni e calce e può crollare da un momento all’altro. Comprendere il senso di una privazione; sapere che quando un amante sfiorerà i nostri corpi, tremeremo come la prima volta. Vogliamo che ci venga detto che ci sono cose da cui non si guarisce e che se anche passeranno gli anni non guariremo mai, che non saremo più gente tranquilla, che le strade e i bar affollati ci renderanno di pietra, che non sapremo più ballare se non dentro a una stanza vuota, che ci copriremo il viso con le mani quando le mascherine non serviranno più, che dimenticheremo come si guida, come si ordina da bere, come si viaggia, come si consola un amico che soffre.

Necessitiamo di un neorealismo dei sentimenti. Perché quando tutto sarà finito e tornati alla libertà non avremo più timore a parlare della solitudine, del silenzio e della paura scampata, queste parole non avranno più senso. Saranno inutili e vuote come oggi è inutile e vuoto parlare di libertà, carne e cielo. Saranno una vile menzogna come menzognero e vile è convincerci che andrà tutto bene: quando la gente muore, e tutto bene evidentemente non va. E allora i pochi che sapranno scrivere della bellezza dell’esitazione, del tremore di una mano che sfiora, dell’impaccio del primo passo stentato, loro sì, saranno poeti.