Su Natalia Ginzburg e sulla viltà della menzogna
di Valeria Rando

«C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all’improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie.»
È di Natalia Ginzburg la voce che leggete, cadenzata e composta come se stesse narrando una fiaba della sera dal titolo Il figlio dell’uomo. E che tuttavia colpisce, cauta e audace insieme, con la forza di un proiettile conficcato nella carne viva. È un elogio della paura, della brutalità del vero, dei sentimenti atroci di chi sopravvive alle macerie e non sa più fidarsi di un cielo sgombro di aerei. La storia dei figli di uomini che la guerra l’han conosciuta nelle questure; degli antifascisti per i quali il terrore ha avuto il suono d’una scampanellata notturna: pronta a disturbarne il sonno anche quando le fughe e le perquisizioni non avrebbero più avuto ragione d’esistere e l’incubo della casa quieta lasciata dietro di sé, nel silenzio della notte, si sarebbe finalmente estinto.
«Non guariremo più di questa guerra. È inutile. Non saremo mai più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto delle nostre case. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla.»
Vedete. Vedete e leggetela, la voce scarna e spigolosa della Ginzburg, e non abbiate timore di avere paura. Ve ne parlo come una che nei racconti di guerra si rifugia non per trovarvi inutili e speranzose assonanze, ma per fiutarvi il terrore del perseguitato, del confinato, del dissidente – e provare a capire quello dell’isolato, certo diverso ma non meno complesso, che il nostro tempo non ha il coraggio di raccontare. E non perché quella al virus sia una nuova guerra mondiale e i medici e gli infermieri i partigiani dei nostri giorni: ma perché la vostra generazione – quella degli adulti, degli insegnanti, dei filosofi e degli intellettuali – pare preferire la menzogna di un mondo quietato all’atroce brutalità dell’esitazione. La fermezza della finzione all’incertezza del dopo, al non saper rispondere ai bambini che ingenui ci chiedono come ci ritroveremo quando tutto sarà finito.
Pare che l’uomo non sappia vivere la sua condizione se non nell’attesa o nella nostalgia di tempi remoti. Pensateci. Fino a ieri, che vivevamo liberi e carnali e vivi per le strade aperte, la vostra letteratura parlava di silenzi, solitudini, guerre e peccati da espiare – e senza fatica. Mentre oggi, oggi che siamo silenziosi e penitenti in questa solitudine da scontare, le vostre bocche sono piene di parole come resistenza, libertà, carne e cielo – ma false e menzognere, non belle né vibranti quali dovrebbero essere. Come svuotate dei loro significati, e messe lì, esposte, a fingere di rassicurare gli animi inermi dinnanzi all’inquietudine dell’isolamento. Ma sottrarsi al presente per scappare nell’inconsistenza di un sogno o di un ricordo non dovrebbe essere il compito dell’arte: soprattutto se dettato dall’inerzia di chi non vuol fare i conti con la propria storia. La letteratura non crea mondi altri per sfuggire al proprio, bensì per amplificare le emozioni che in questa dimensione siamo troppo borghesi per affrontare. Si nutre di intensità, pullula di mostri, creature fantastiche, storie tragiche e finali struggenti; è fatta di addii, di partenze, di distacchi forzati. Asseconda il sentimento del tempo, non lo dissolve nella cecità del codardo che copre di maschere e veli la realtà.
Eppure c’è chi mente e chi tollera che siate voialtri a mentire. Non avete che malsicurezza e timore della paura, e credendo di proteggerci vi ostinate a raccontarci delle case con le lampade sui tavoli e i vasetti di fiori e i ritratti dei cari che non crolleranno mai. Ma noi invochiamo parole nude, tremori, sentimenti esposti e verità. Vogliamo leggere nelle piaghe di queste strade ardenti di cemento e trovarci dentro la desolazione dei nostri animi. Vogliamo imparare che una casa è fatta di mattoni e calce e può crollare da un momento all’altro. Comprendere il senso di una privazione; sapere che quando un amante sfiorerà i nostri corpi, tremeremo come la prima volta. Vogliamo che ci venga detto che ci sono cose da cui non si guarisce e che se anche passeranno gli anni non guariremo mai, che non saremo più gente tranquilla, che le strade e i bar affollati ci renderanno di pietra, che non sapremo più ballare se non dentro a una stanza vuota, che ci copriremo il viso con le mani quando le mascherine non serviranno più, che dimenticheremo come si guida, come si ordina da bere, come si viaggia, come si consola un amico che soffre.
Necessitiamo di un neorealismo dei sentimenti. Perché quando tutto sarà finito e tornati alla libertà non avremo più timore a parlare della solitudine, del silenzio e della paura scampata, queste parole non avranno più senso. Saranno inutili e vuote come oggi è inutile e vuoto parlare di libertà, carne e cielo. Saranno una vile menzogna come menzognero e vile è convincerci che andrà tutto bene: quando la gente muore, e tutto bene evidentemente non va. E allora i pochi che sapranno scrivere della bellezza dell’esitazione, del tremore di una mano che sfiora, dell’impaccio del primo passo stentato, loro sì, saranno poeti.