Moria ovvero l’isola della morte

di Valeria Rando


È stato questa mattina, nello spazio sicuro e ombreggiato della mia cucina: lo stesso in cui trascorro le ore in attesa che il sole nasca, e che la giornata, per la città, si decida a cominciare. Ma avrebbe potuto essere una mattina qualsiasi di queste settimane trascinate nell’ombra e nell’odore di caffè, una qualunque del sorgere di questi ultimi mesi d’ozio e di clausura, in cui gli echi dal mondo non giungono se non sottoforma di vento, parole fumose e lontananze. Leggevo, ancora intorpidita dal sonno aurorale, le notizie sul campo profughi di Moria, nel centro arido e afoso della Grecia insulare, sul bordo del confine turco, in questo settembre dal calore ancora residuale di agosto: talmente secco da parere pungente. E inconsciamente, nello sbalzo imprevisto della lettura silenziosa, il lapsus: Moria o Morìa, isola della morte.

È Moria, il campo profughi che nel 2015 è stato inaugurato sull’isola greca di Lesbo. Centro di fortuna sorto tra gli ulivi; luogo di misericordia e benevolenza; accampamento temporaneo in cui i profughi migranti trovavano ristoro, prima di proseguire lungo la rotta balcanica e raggiungere l’Europa, accolti e benvoluti dalla popolazione locale e dai numerosissimi volontari: la sua evoluzione – che ha assunto, negli anni, i tratti topici di una regressione – sembra rispecchiare l’atteggiamento mutevole del continente nei confronti delle politiche migratorie, passato repentinamente dalla celebrazione dell’accoglienza alla più totale incuranza e sprezzo della miseria. Che è, eufemisticamente, un’altra insulsa e svuotata parola per dire morte: per quanto infondo, Moria-morìa, l’aria funebre del cimitero l’avesse da anni. Il campo stentava nella morte-miseria del vivere in ventimila in uno spazio pensato per tremila persone; in quella della mancanza di cure e servizi igienicosanitari dignitosi e adeguati; della poca acqua, dei bagni scarsi e inaccessibili ai minori non accompagnati, pena il rischio di non trovare la strada di ritorno, di finire derubati del niente che si possiede, d’essere stuprati. E che tentava di sopravvivere nel dramma teatrale del sacrificio: della stessa, miserabile morte di fuoco dei bonzi del Vientam, immolatisi nelle fiamme per far luce sulle disumane condizioni dei buddhisti nel paese; o di quella di Jan Palach, scintilla umana della Primavera di Praga. Così gli incendi che da mesi, stimolati dalla paura dell’epidemia, sorgono tra i cumuli d’immondizia cui un tempo si sostituivano uliveti, mi piace pensarli tinti della stessa ansia di rivoluzione che sottende a qualsiasi protesta. Guardateci, sembrano gridare, non ne possiamo più. Finché una combustione più crudele delle precedenti, esito di una sopportazione non più sostenibile – poco importa se umana o fatalistica: quando la crudeltà del cielo è tale da soverchiare l’inezia delle sue vittime, non è più dato domandarselo – non ha spazzato via l’ultima, sbriciolata illusione umana di sovversione dell’ordine di natura: di imposizione della stasi sulla dinamica del flusso: di sedentarizzazione coatta del migrare.

Il panico generato dalla pandemia ha reso nota – con la stessa velocità con cui si è tornati all’indifferenza – la condizione d’insostenibile prigionia di uno spazio trasformatosi da stazione temporanea in stabile galera, e all’improvviso, qualche manciata di ore o giorni fa – nell’ombra appartata delle nostre cucine non fa differenza –, da stabile galera in cenere primordiale. Nato come un giardino d’acqua nel deserto, fino a ieri Moira era una baraccopoli in cui entrare era inevitabile e uscire impossibile. Oggi, della prigione a cielo aperto che fu, non resta altro che un ammasso di scheletri di tende e vettovaglie incenerite; le fiamme dell’incendio di martedì sembrano aver cancellato persino le impronte delle generazioni che l’hanno attraversato. Una città invisibile, così come Calvino non avrebbe potuto pensarla mai: perché tale invisibilità non trova spiegazione nell’essere improgettata, quanto nella concretezza esperita del suo ciclo biologico: concepita, realizzata, vissuta, decaduta, e inesorabilmente estinta. Così, famiglie di esuli camminano sommessamente lungo la strada, senza parlare poiché devastati dal caldo, mesti, in un interminabile corteo funebre verso una nuova meta. La Germania, hanno chiesto: quella che appena un secolo fa chiamavamo America, e che un cristiano non esiterebbe a invocare come Paradiso. Ma pare che solo le poche centinaia di minori non accompagnati avranno accesso a una possibilità di redenzione: i soli a cui l’Europa sa guardare con pietà, dopo aver pianto i suoi anziani decimati dalla pandemia, disprezzando chiunque osasse gerarchizzare i morti. Ebbene adesso, immemore, ella gerarchizza i vivi.

Ma su un’altra, più sfrontata dunque atroce violazione dell’interdizione, le fiamme degli incendi paiono aver gettato una luce fioca e fumosa: il controllo del movimento, controllo dei corpi. La scritta “Libertà di movimento” incisa dalla rabbia su un muretto crollante è uno dei pochi segni di vita miracolosamente sopravvissuti alle fiamme del campo: l’aria fantasmatica e desolata in cui solo i curiosi osano affacciarsi, sembrerebbe aver riportato il migrante alla sua natura fluida e dinamica – il libero movimento. Ma solo temporaneamente, nell’attesa di una nuova, dominata sistemazione. Moria, infatti, non sarà ricostruita, ma si prevede che le migliaia di famiglie di profughi – abitate dai padri e dalle madri di cui non sappiamo aver pena – saranno sistemate su traghetti: campi galleggianti, isole in mezzo allo stesso mare che ne ha interrotto le migrazioni, probabilmente destinati a finire sigillati con il pretesto della pandemia. Ma che alla fine, benché isolati, esploderanno: e i detriti dell’esplosione finiranno per raggiungere anche noi, intorpiditi nell’alba e nell’odore del caffè.

C’è un bel dire a proposito della presunta insularità di Lesbo: un po’ come quella africana, guardata dalla stabilità continentale da cui l’Italia si affaccia, a penzoloni; un po’ come quella mediorientale, che i Balcani, tremolanti come un muro di sabbia, separano dall’Europa, proteggendola dalle tensioni ventose dell’Est; un po’ come quella, metaforica, di qualsiasi provincia, se guardata dalla città – o delle periferie, di là dalle stazioni, dalla prospettiva di un centro storico. Così è Lesbo. Isola non tanto perché cinta dalle acque del mar Egeo, ma perché stupidamente creduta uniforme: quasi che i suoi confini geologici ne segnassero, stabilizzandola e appiattendola, l’identità. Così era Moria, isola nell’isola creata per definire il noi in relazione a un loro qualsiasi: afghano, somalo, curdo, siriano, sunnita, sciita, cattolico, ortodosso; indubbiamente profugo. Moria, cinta da recinzioni metalliche e fili spinati e per questo creduta intoccabile; Moria, spazio di segregazione permanente del migrante divenuto, contronatura, stanziale. Campo mutato in ghetto e poi in città, regolato dalle sue relazioni interiori, e inverosimilmente destinato ad essere trasferito su una nave: quasi che due mani raccolte a conchiglia potessero chinarsi su quel che resta dell’isola della morte e riporne la poltiglia di sopravvissuti misti a cenere su un altro basamento qualsiasi, per quanto instabile, e permetterci di ignorarlo fino al tempo in cui s’innalzeranno le prossime colonne di fumo.