Storia della rivoluzione e della ricostruzione permanente
di Valeria Rando

Questa storia ha della speranza e dello sconforto, un po’ come quella del Paese che l’ha ospitata. Cento volte distrutto – e altrettante ricostruito – il Libano si trova al centro di una delicatissima regione geopolitica, sventrato da decenni di guerre e di occupazioni, pieno di risorse e di capacità, ma in perenne naufragio: e senza più forza per proteggersi.
Questo, almeno, a detta della testimonianza delle vecchie generazioni – educate a null’altro che all’adattamento alla tragedia e alla sfiducia nei governi. Quelle che hanno dovuto affrontare gli effetti del conflitto israelo-palestinese, con l’ondata di rifugiati che ne derivò; subire l’invasione israeliana, poi quella siriana; assistere impotenti all’umiliazione dell’assedio di Beirut – era la prima volta che in una capitale araba marciavano soldati israeliani – e agli orrori che con essi arrivarono; patire i bombardamenti, le migliaia di morti tra i civili; credere nella rivoluzione e ritrovarsi nelle mani di Hezbollah; sospirare sulle ipocrisie della pace, sulla corruzione dei governi, sui lasciti devastanti dell’inflazione; patire la fame per rimpiangere la guerra; odiare il proprio fratello sunnita, sciita o cristiano, per poi perdonarlo, e sorprendersi di trovarsi sempre lì: ancora frodati dalle profonde contraddizioni della religione.
La storia del Libano nasce da un sogno trasformatosi in chimera prima, e in incubo poi: quello del confessionalismo, il sistema di rappresentanza politica su base religiosa che, nel pretesto dell’equa distribuzione del potere tra le comunità, ha negli anni incatenato il Paese, abbandonando i governi alla corruzione, e il popolo alla miseria. È contro di esso che, a partire dall’ottobre 2019, la gioventù – la meglio gioventù libanese – si è mobilitata, trasversalmente, unanimemente e al di là di ciò che definisce e separa: appunto, le barriere confessionali. Migliaia di giovani studenti, donne e uomini, di qualsiasi credo religioso e in tutte le città del Paese, si sono stretti attorno al grido di «thawra, thawra!» – rivoluzione – chiedendo le dimissioni del governo e la fine del sistema settario.
Le proteste dell’ottobre 2019
Il casus della protesta è stato estremamente simbolico: l’ennesima tassa – questa volta su WhatsApp, di 20 centesimi al giorno – imposta dal governo di Saad Hariri nel tentativo di reagire a uno dei debiti pubblici più alti al mondo. In un Paese in cui l’economia è al collasso, e l’1% della popolazione detiene il 58% della ricchezza, sfiancato dal carovita conseguente all’inflazione e derubato dalla negligenza della sua classe politica, il popolo libanese inizia a patire la fame.
La giornalista Gisèle Khoury, intervistata in un reportage pubblicato da Q Code Magazine nel gennaio 2021, piena di sconforto, testimonia: Vedere i vicini al supermercato guardare una volta, due volte, il prezzo dello zucchero, del riso, del caffè, persino del pane, prima di metterli nel cestino, non l’abbiamo mai vissuto in Libano.
Cassaforte del Medio Oriente per i tassi di interesse convenientissimi – il meccanismo economico libanese si è inceppato nel 2011, con la crisi siriana, quando il Paese si vide costretto ad accogliere 1,5 milioni di rifugiati, circa un quarto della sua popolazione. Da allora, il valore della lira libanese è crollato improvvisamente, trascinandosi dietro un popolo intero; la gente volle ritirare in massa i propri risparmi, e il sistema, inevitabilmente, fallì. File di persone in attesa, con le porte delle banche chiuse; anziani che tentavano di recuperare quel poco che restava loro; niente più fiducia nella gestione governativa delle risorse: è anche contro di questo che sono esplose le proteste.
Su Facebook ho tutte le foto della rivoluzione, ma ho dovuto vendere il telefono per mangiare – dice fiero Mohamed in un bilocale condiviso con altre otto persone. Ma poi si rattrista: Quindi non ho più un telefono, devo pur mangiare. Se ho qualcosa da vendere la vendo, perché non voglio elemosinare: sarebbe troppo.
Era dalla Prima Guerra Mondiale che non si assisteva a una tale miseria. Al punto che, come spesso accade, si è finiti per rimpiangere il passato: anche se a fiaccare, se a uccidere, allora, erano le bombe. Era più facile durante la guerra. C’erano i soldi e le cose non costavano così tanto. Non ci mancava nulla, oggi è molto più dura. Oggi, è peggio che durante la guerra civile. C’erano i bombardamenti, ma c’era lavoro.
Oggi è più dura della guerra perché la gente ha fame. È la guerra della fame.


La ripresa degli slogan contro l’occupazione siriana
Qualcuno l’ha definita una primavera tardiva, senza pensare che in Libano, una rivolta, c’era già stata. Fu la prima delle primavere politiche che avrebbero scosso i Paesi del mondo arabo, partendo dalla Tunisia per coinvolgere Egitto, Siria, Libia, Bahrein, Algeria, ed estendersi progressivamente alle altre aree del Medio e Vicino Oriente e del Nord Africa – e alla cui onda d’urto, all’apparenza, il Paese dei cedri resistette.
L’ideale della convivenza pacifica tra comunità equamente rappresentate, inscritta nel cuore dell’identità nazionale libanese, è stato tradito da decenni di guerre civili, occupazioni e crisi economiche. Basti, per comprenderlo, una tragica sequenza di eventi scatenati dagli effetti del conflitto israelo-palestinese nel già instabile panorama mediorientale: quando, nell’aprile del ’75, a Beirut – ormai retroguardia dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina capeggiata da Yasser Arafat –, soggetti ignoti spararono a un leader cristiano, i suoi sostenitori risposero massacrando dei militanti palestinesi su un bus. Dopo appena sei mesi da quell’episodio, una linea di demarcazione divideva la capitale, esiliando a est i cristiani, a ovest i musulmani. Fu l’inizio della guerra, che in 15 anni avrebbe causato 150mila morti, 300mila feriti e centinaia di migliaia di esiliati.
Temendo che la guerra civile libanese potesse destabilizzarne il territorio, la Siria di Hafiz al-Assad si adoperò nel contenimento delle migrazioni dei cristiani – che si spostavano verso est – proteggendo militarmente i suoi confini. Venute per portare la pace, le forze siriane si trasformano in esercito di occupazione, nutrendosi delle risorse libanesi fino a prosciugarle: i traffici di contrabbando, i metodi di matrice simil-mafiosa nel controllo del territorio – come l’imposizione del pizzo a ogni posto di blocco –, le stragi di civili non si sarebbero interrotti neppure con gli accordi di Ta’if del 1989. Bashar al-Assad, seguito a suo padre, nuovo alleato dell’Iran – che attraverso gli sciiti di Hezbollah ha trovato in Libano una frontiera alternativa contro Israele – all’inizio degli anni 2000, dopo 30 anni dall’inizio della guerra, tornò a occupare il Paese: da allora, reati, torture e sequestri non risparmiarono nessuna famiglia libanese.
Finché nel 2004 l’allora primo ministro Rafiq Hariri non decise di allearsi con gli Stati Uniti, considerati i vincitori dei conflitti in Medio Oriente, per porre fine al protettorato siriano: ma appena sei mesi dopo gli accordi con l’ONU per la cacciata dell’esercito di Assad, finì assassinato. La sua morte fu come un terremoto. Una protesta di massa, a Beirut, chiese la fine dell’occupazione: iniziò così la Rivoluzione dei cedri, la prima delle primavere arabe.
Si chiedevano verità e democrazia, fine della corruzione e del confessionalismo, condizioni di vita dignitose. Il 2 giugno 2005, uno dei leader della rivoluzione – il docente, giornalista e attivista, intellettuale militante, uomo in perenne rivolta contro l’ingiustizia, nonché marito di Gisèle Khoury, Samir Kassir – venne ucciso da un’autobomba.
Erano omicidi contro il futuro, ammette Gisèle. Avevano capito che quei leader erano il futuro del Paese. E oggi, 15 anni dopo, i giovani riprendono i loro slogan. Uno stato di diritto, un Paese democratico, un sistema politico che deve finire.
Insieme a Samir Kassir, in meno di un anno 12 libanesi vennero assassinati: politici o giornalisti, lottavano tutti per la democrazia e la fine del confessionalismo. E come se il Libano non meritasse la pace, un anno dopo la partenza dei siriani, venne nuovamente invaso dai carri armati israeliani, chiamati dal pretesto della lotta contro Hezbollah. Migliaia di civili vennero uccisi, e tutte le infrastrutture risultarono, ancora una volta, da ricostruire. Eppure, per il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, si trattò di una vittoria storica: Stato nello Stato, il Partito di Dio si sarebbe imposto sugli altri partiti – spegnendo le successive rivolte e il desiderio di cambiamento dei giovani libanesi.
Oggi come allora, Hezbollah – o la fame che prostra e svilisce, e rende mansueti più della paura – ha svuotato le piazze. Un popolo affamato è cattivo, grida, smania e sfuria: ma uno piegato dalla fame si riduce al silenzio.

L’esplosione nel porto di Beirut
A risvegliare lo spirito rivoluzionario delle giovani generazioni è stata la sorpresa della catastrofe: lo scorso 4 agosto, 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio hanno polverizzato in pochi istanti il porto di Beirut, causando 200 morti, 7000 feriti e centinaia di migliaia di sfollati.
Benché ostaggio delle principali potenze dell’area, degli interessi europei e statunitensi, il più profondo e letale cancro del Libano sta nella negligenza della sua classe dirigente. Non è un caso, infatti, che l’esplosione sia stata letta come il risultato inevitabile di tutti i mali del Paese, a partire dalla corruzione della classe dirigente, che per decenni ha derubato e disprezzato il suo popolo: e che adesso si ritrova interrotto sul bivio tra il restare e il partire.
La fine di questa lunga storia di sconforto e di speranza è quella di una separazione. Gisèle si prepara alla partenza, lavorerà negli Emirati Arabi Uniti: ma non sua figlia Rana. Nella generale compassione che la tragedia scatena, una nuova sete di giustizia – meno rabbiosa, forse affaticata, flebile, triste: ma autentica – sembra star scuotendo le giovani generazioni. Dal giorno dopo l’esplosione, migliaia di volontari provenienti da tutte le comunità si sono mobilitati per soccorrere i sopravvissuti: sgomberando a mani nude le strade dalle macerie, rafforzando reciprocamente il proprio impegno, partendo dalla ricostruzione civica – quella delle relazioni – per rimettere in piedi la città incenerita.
Faccio al contrario, di solito se ne vanno i figli, non i genitori. Sono io ad andarmene – da tutto. Io ho subito la guerra, ho subito gli orrori della guerra, ho subito l’emigrazione. Ho subito la mediocrità della classe politica. Ho subito l’egemonia siriana. Ho subito l’invasione israeliana. Siamo una generazione che è stata sacrificata. Abbiamo trasmesso ai nostri figli che senza libertà il Paese non c’è.
In un Libano che è stanco di adattarsi, e freme di trasformare, la meglio gioventù resta: convinta che in fondo, per fare un Paese, possa bastare questo. Restare.
Sitografia
QCode Magazine, Libano: l’ostaggio del Medio Oriente
Lorenzo Forlani per Non Dalla Guerra, Libano, a un anno dall’inizio delle proteste
Per le testimonianze sulla ricostruzione seguita all’esplosione, si vedano i lavori curati dalle giornaliste freelance Sara Manisera e Arianna Pagani del collettivo FADA
