THE ARAB WOR(L)D

The Arab Wor(l)d

A verbal journey in the Arab lands

Un podcast di Valeria Rando


L’idea di narrare il mondo arabo attraverso la lingua del ḍād nasce dall’intuizione linguistica tra mondo e parola, in inglese worldword, e dall’esperienza del viaggio attraverso la comunicazione; l’incontro, talvolta conflittuale, con l’altro da sé; lo studio della grammatica, della poesia, dei modi di dire, per capire una cultura – e di essa le genti; la fotografia dei luoghi attraverso le lenti di ciò che sappiamo noto, e non ci abbandona. C’è qualcosa che mi ha sempre affascinato della lingua araba: ed è la coesistenza di significati diversi negli stessi termini, letterali e figurati. Maktub (مكتوب), per esempio, letteralmente «ciò che è scritto», può anche significare «destino», ovvero qualcosa che è già stato definito, e non si può cancellare né cambiare. Ancora, nel colloquiale parlato che chiamano ‘ammiye, gli amanti son soliti dirsi a vicenda yaaburnee (يقبرني), «seppelliscimi», dichiarazione di speranza che l’uno possa morire prima dell’altro, per non doverne sopportare la sopravvivenza. Per non parlare della parola beit (بيت), «casa», ma anche «emistichio», la metà di un verso poetico. Come spesso accade, i significati più profondi si nascondono dietro i simboli più comuni: e la bellezza del concetto di بيت giace nel suo senso duplice e interconnesso, nello specchiarsi reciproco della poesia con la casa, della lingua madre – con la madre terra. Questa narrazione vocale a tratti esitante, a tratti inciampata, dolorosa e sospesa, non poteva che partire dalla Palestina. Buon ascolto.

Le città invisibili di Italo Calvino come palinsesto per fotografare la geografia urbana palestinese. Hebron, in arabo Al-Khalil, luogo irraccontabile, è protagonista di una coppia di episodi che mirano ad abbozzarne un’idea: di resistenza, sopra ogni altra cosa. Con le testimonianze degli attivisti di Youth Against Settlements e Breaking the Silence.

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