Tradurre l’estenuatezza

Sulla poetica di Najwan Darwish e la soglia di Nablus

di Valeria Rando

Luogo di sepoltura del diciannovenne palestinese Qusai Mahmoud Al-Tamimi, ucciso dalle Forze di Occupazione israeliane lo scorso 25 ottobre a Nabi Saleh, nella Cisgiordania occupata

Come si traduce l’estenuatezza? Me lo sono chiesta mentre leggevo un articolo di Khaled Rajeh sulla difficoltà di tradurre, in inglese, la poetica del palestinese Najwan Darwish, tra le più rilevanti del panorama letterario contemporaneo. Esausto sulla croce, del 2018, si intitola una delle sue ultime raccolte. E solleva, crudelmente, versi come questi:

Coloro che pendono / sono stanchi. / Quindi portaci giù / e concedici un po’ di riposo.

Quei coloro senza nome pendono a un crocifisso, sospesi a tempo indeterminato, bloccati da qualche parte tra la vita e una morte che non arriva mai. Supplicano, esclamano la loro stanchezza, implorano di essere abbattuti e non ricevono risposta. Per decenni – senza risposta. E noi, sordi, dall’altra parte del calvario li abbiamo raccontati eroici, resistenti, talora vittime senza difese, eppure sempre armati di pietre con cui rispondere ai proiettili. Ai razzi. Alle bombe. Sempre attivisti e sempre passivizzati. Dignitosi. Titani. Adab al-muqawama, la letteratura della resistenza coniata da Ghassan Kanafani, cade oggi su orecchie sorde. È la voce degli Arabi le cui lingue sono state tagliate. «Non-c’è-dignità-qui» sono le sole parole che la donna sessantacinquenne della poesia A Shatila è in grado di raccogliere. 

Fiumi di rimpianti, / anni di agonia che annegano / in sole quattro parole.

L’espropriazione dei palestinesi si è estesa alla loro poesia. La funzione del loro poetare – all’amnesia.

I fantasmi cercano di dimenticare / e quando si incontrano in gruppo / si incontrano per dimenticare / bevono tè / e si recitano poesie / per dimenticare.

Najwan Darwish si racconta, per la prima volta, palestinese estenuato. Dai tempi del profeta Mohammad ai massacri di Sabra e Shatila fino all’ultimo ragazzino ucciso per effettocollateraledelconflitto. Estenuato fino a Nablus imbavagliata per anni e punita per essersi svegliata, per aver cantato. Estenuato fino al giorno in cui ci tornai, dopo settimane di coprifuoco, per provare a vedere, provare a capire. Per illudermi di trovare una risposta, una spiegazione, una causa. Estenuato fino alla mia disillusione. Non ho registrato voce alcuna, non ho fatto domande, non ho tentato di interpretare gli sguardi. Non puoi interpretare ciò che non sai: e io, la morte e la paura, non le so. Neanche dei gatti, nati durante l’assedio e probabilmente rimasti sordi. Ho guardato il sangue ancora umido e la fila di devoti che onora i suoi martiri. Poi ne ho scritto. E questo, il residuo dei ricordi della Nablus che mi è stata concessa, lo condivido. Perché altri strumenti non ho.


L’ha definita una notte poetica. Mentre dal medico fingeva di comportarsi come una trentenne normale, e dibatteva sugli effetti collaterali della pillola, e pensava al suo ragazzo lontano, e al non vederlo da due anni, e al desiderio neonato di sposarlo, pur senza averlo mai sfiorato – se non quella volta che ad Anversa si tolse il hijab. Mentre al mattino appena sveglia e durante il solito tè, nei riti preparativi al giorno, nella scelta del velo del trucco dell’intensità del sorriso a seconda dei martiri della notte passata; nella complicità nuda con la gemella a qualche strada di distanza – ma fatalmente altra, dopo il matrimonio e la maternità; e nonostante questo incatenate a vicenda, l’una nel talento dell’altra, nel dolore dell’altra, nelle crisi di nervi nei pianti nelle insonnie dell’altra; mentre respirando e mangiando si convinceva: vivo, una fila di ragazzini con sulle spalle esili la tomba del fratello, e in braccio i fucili, marciavano tra i vicoletti della loro città vecchia, tra le fabbriche di sapone, le foto dei morti, i caffè mezzivuoti e decadenti, le chiazze di sangue ancora fresco, i miagolii instancabili, i fori dei proiettili, i segnali per le basi della Mezzaluna Rossa, le urla ridenti delle madri, lasciando dietro di sé l’eco furiosa degli spari al cielo. Rimbombo stomachevole dai vortici della terra – ticchettio di pallottole che ricadono al suolo. Boom – tic tic tic tic tic tic. Boom – tic tic tic tic tic tic. Sempre più veloce, tic boom, incalzante, tic tic tic tic. Era la prima volta che sentivano un’arma del genere, mi ha detto. Crescere a Nablus nella seconda Intifada, avere paura nella seconda Intifada, imparare a riconoscere il numero di proiettili al secondo, il numero di feriti al secondo, i secondi tra la morte e la consapevolezza della morte – la responsabilità di avvertire la madre – e adesso chi penserà ai bambini – il prezzo di non saper più dormire. Questo – è – nuovo. Così forte – non l’ho sentito – mai. Una fine una cesura la condanna a morte della finta tranquillità in cui viviamo da neanche vent’anni. Boato: paura. Pioggia di proiettili al suolo in onore del marire. A quel ticchettio nevrotico gli israeliani sono impazziti: armi così le usavano gli americani in Iraq, e se come dicono sono entrate dal forty-eight, il fine accordato era di ammazzarsi a vicenda – non certo di ribellarsi all’occupazione. Si fanno chiamare ‘areen al-usud, la fossa dei leoni, e hanno tutti vent’anni appena. Quattro forze di sicurezza, l’intelligence, i servizi segreti di Shabak, i corpi speciali, ci hanno messo una notte intera a trovarli. Lei l’ha definita una notte poetica. Si sono intrufolati che le strade si erano già svuotate, e i sonnambuli fingevano il sonno nel trauma, in abiti civili dentro un carretto dei gelati. Sventrato come un cavallo di Troia, uno ad uno si sono sfilati dall’imbroglio, hanno incalzato la caccia infernale – obiettivo un ragazzo della città vecchia, Wadih Al-Houh. Pochi secondi di mutua diffidenza, e il caos: Nablus che conserva i vortici della battaglia dell’aprile 2002 – e su di essi quelli dello scorso 25 ottobre. Anche allora il mueddhin chiamava alle armi: nel nome di Dio scendete in strada e resistete, bismillāh al-rahmāni al-rahīm. Aveva scelto il hijab per andare a morire, arancione bordato di bianco, il rossetto rosa antico, pettinato le sopracciglia, indossato le scarpe che la fanno più alta. Aveva vestito il lenzuolo grigio chiaro e pregato a lungo, ferma dietro la porta si preparava anche lei a morire. Uno sguardo pietoso alla madre dormiente l’ha trattenuta. La voglia di vivere, il terrore di non invecchiare, il pensiero lontano all’uomo che pur senza aver mai toccato è pronta a sposare, alla gemella strappata che dietro una porta uguale alla sua, a qualche strada di distanza, prostrata alla chiamata dei minareti, dopo aver a lungo pregato, e lanciato uno sguardo pietoso ai figli dormienti, esitava a morire. A scendere in strada sono stati i ventenni ignoranti del domani di chi gli sarebbe sopravvissuto, i ragazzileone allenati ai videogiochi e alla volontà di potenza, le decine come Wadih, eroi e martiri, eterni figli, agnelli sacrificali. Ore di inseguimento e bucherellare continuo sulla roccia violata, sparavano ad altezza umana, dai tetti delle case occupate sulle tettoie arrugginite del mercato vecchio, mappa astrologica di costellazioni stagionali fissate in eterno. Prova dell’assurdo squilibrio di questo conflitto. Poi sono scesi con i droni, e l’hanno ammazzato in casa: con un giocattolo elettronico, hanno attraversato il cielo; allargate le sbarre di ferro del balcone con la furia del calabrone tra i fili d’erba si sono infiltrati negli spazi della sua intimità, la camera da letto, il bagno; poi in corridoio il colpo fatale, ancora il davanzale umido di sangue; un amico l’ha trascinato in cucina e ha nascosto il corpo morente piegato nel sottolavabo, ha chiuso le ante, fuggendo è morto ammazzato anche lui. Due settimane dopo la cucina gremita di discepoli in pellegrinaggio conserva ancora l’odore di morte e tubi idraulici sgocciolanti. Tic tic tic. L’acqua di scarico echeggia vendetta. Il dronecarnefice, o ciò che ne resta, è alla portata dei curiosi – nonostante un enorme cartello proibisca, in ebraico arabo e inglese, di scattare fotografie, e agli stranieri di avvicinarsi. L’ha definita una notte poetica e per darmene idea mi ha coperto il capo e il collo, ha taciuto la mia parlata straniera, fatto di me una silenziosa sorella minore, e guidata tra le macerie, i gatti, i parenti, i bambini, la fila luttuosa e fiera dei pellegrini. Commemorazione che precede giustizia. Prove violate per rendere omaggio al martire. Tutti sanno cos’è successo, non aspetteranno i tempi castranti della burocrazia connivente omertosa, altri morti potrebbero arrivare presto e cancellare i cinque del drammatico martedì, lunga vita a Wadih Al-Houh, massacrato perché l’odore della sua decomposizione potesse sopravvivere alla scena del delitto, e l’acqua sgocciolante dei tubi al boato del fucile che imbracciava, e il camminare indifferente dei gatti all’urlo inaccettabile della madre, e questo mio sconcerto alle orecchie di chi non vuol sentire, e parla di guerra triste e necessaria e di prevenzione al terrorismo e di cancro sociale e di situazione complicata e di polveriere mediorientale e di due pesi e due misure e di sicurezza dello stato di Israele e di persecuzione degli ebrei e di siamo tutti le vittime di qualcuno e di ragazza mia bella quanto sei coraggiosa pregherò per te porta la pace nella terra santissima da sempre macchiata violata offesa sepolta dimenticata mi raccomando scrivi. 


Murales della resistenza palestinese nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania occupata

Come si traduce l’estenuatezza? Raccontando le cose che non abbiamo potuto testimoniare, le storie che non abbiamo potuto vedere, vivere né partecipare. Lì, nello spazio vuoto, siamo costretti a frenare, a mettere a bada l’impazienza di scrivere: facciamo un passo indietro, all’inizio deludendoci di tornare a casa a mani vuote. Poi, nell’attesa senza speranza di un checkpoint, riconosciamo che la storia da raccontare è invece quella: e vive nel nonpotere. Non poter andare avanti, attraversare un confine, né rispondere con rabbia sincera agli interrogatori. Non poter piangere di frustrazione, per non sentirti ridicola davanti a chi – al di là della stessa frontiera – ha una famiglia che attende da decenni. Non poter fare le domande che vuoi, perché non padroneggi la lingua del posto. Non quella degli invasi: non quella degli invasori. Non poter restare per paura di comprometterti. Non poterti esporre perché tu sì, hai qualcosa da perdere. Non poter mai e per nessuna ragione dire lo-so-io-capisco.

Queste riflessioni sono dedicate a ogni luogo che non ho visto perché non ho potuto, e che non ho compreso perché non mi è concesso. Ai detenuti nelle carceri di Gerico; a Jenin, e al suo teatro che resiste; a Nablus chiusa per settimane, e alla mia amica Hala che ho salutato frettolosamente. A Beirut e Damasco che un tempo la ferrovia collegava a Haifa e Gerusalemme. Alla sede di Youth Against Settlements, a Beit Sumud, dichiarata zona militare chiusa mentre io ero al mare. Al parcogiochi di Msafer Yatta che la prepotenza dei coloni ha sradicato. Alla Spianata delle Moschee nei giorni in cui il Ramadan capitò di sovrapporsi alla Pasqua ebraica. Ai campi profughi di Betlemme, ad ‘Aida, sotto attacco. Ai funerali di Shireen Abu Akleh e di ogni altro martire. A Nabi Saleh dieci anni fa. A Kufr Kaddum ogni venerdì. A Gaza. A Gaza. A Gaza.

THE ARAB WOR(L)D

The Arab Wor(l)d

A verbal journey in the Arab lands

Un podcast di Valeria Rando


L’idea di narrare il mondo arabo attraverso la lingua del ḍād nasce dall’intuizione linguistica tra mondo e parola, in inglese worldword, e dall’esperienza del viaggio attraverso la comunicazione; l’incontro, talvolta conflittuale, con l’altro da sé; lo studio della grammatica, della poesia, dei modi di dire, per capire una cultura – e di essa le genti; la fotografia dei luoghi attraverso le lenti di ciò che sappiamo noto, e non ci abbandona. C’è qualcosa che mi ha sempre affascinato della lingua araba: ed è la coesistenza di significati diversi negli stessi termini, letterali e figurati. Maktub (مكتوب), per esempio, letteralmente «ciò che è scritto», può anche significare «destino», ovvero qualcosa che è già stato definito, e non si può cancellare né cambiare. Ancora, nel colloquiale parlato che chiamano ‘ammiye, gli amanti son soliti dirsi a vicenda yaaburnee (يقبرني), «seppelliscimi», dichiarazione di speranza che l’uno possa morire prima dell’altro, per non doverne sopportare la sopravvivenza. Per non parlare della parola beit (بيت), «casa», ma anche «emistichio», la metà di un verso poetico. Come spesso accade, i significati più profondi si nascondono dietro i simboli più comuni: e la bellezza del concetto di بيت giace nel suo senso duplice e interconnesso, nello specchiarsi reciproco della poesia con la casa, della lingua madre – con la madre terra. Questa narrazione vocale a tratti esitante, a tratti inciampata, dolorosa e sospesa, non poteva che partire dalla Palestina. Buon ascolto.

Le città invisibili di Italo Calvino come palinsesto per fotografare la geografia urbana palestinese. Hebron, in arabo Al-Khalil, luogo irraccontabile, è protagonista di una coppia di episodi che mirano ad abbozzarne un’idea: di resistenza, sopra ogni altra cosa. Con le testimonianze degli attivisti di Youth Against Settlements e Breaking the Silence.

Sumud per la libertà

Le forze di occupazione israeliane arrestano l’attivista Issa Amro per aver documentato le violenze dell’apartheid

di Valeria Rando

Issa Amro documenta una delle violazioni giornaliere dei suoi diritti in prossimità di un checkpoint israeliano a Hebron, con alle spalle un soldato e un colono (via Twitter)

È stato arrestato la sera di lunedì 28 novembre Issa Amro, attivista palestinese per i diritti umani riconosciuto dalle Nazioni Unite e fondatore del movimento Youth Against Settlements nella città occupata di Hebron, nel Sud della Cisgiordania, dopo essere stato convocato alla stazione di polizia di Ja’bara, nei pressi dell’insediamento di Kiryat Arba. La mattina del 25 novembre aveva riportato gli attacchi delle forze di occupazione israeliane, che il linguaggio mendace del sionismo definisce di difesa, contro manifestanti della sinistra pacifista israeliana, ebrei filo-palestinesi, per la fine dell’occupazione e della cieca impunità del colonialismo degli insediamenti.

Happening now , Israeli soldier beat up an Israeli Jew who came to show solidarity with Hebron civilians after the pogrom last week

Tweet di Issa Amro عيسى عمرو 🇵🇸 (@Issaamro), 25 novembre 2022

Issa è stato arrestato nel centro dell’associazione YAS (acronimo in inglese per Giovani contro gli insediamenti) fondata nel 2006, e dove da allora risiede, per contrastare, con le armi della nonviolenza e della disobbedienza civile, le aggressioni impunite dei coloni e dei soldati, e il tentativo sionista di rimozione e sostituzione dell’identità palestinese da Hebron. Pulizia etnica come mezzo indiscriminato di espansione da più di sette decenni. Il centro, chiamato in arabo Beit Sumud, casa della fermezza, della resistenza irremovibile, si erge incastrato tra gli ulivi e la discarica del quartiere di Tel Rumeida, o Jabal al-Rahma, letteralmente monte-della-misericordia,che i coloni chiamano Tel Hebron, secondo l’abituale uso di rinominare in ebraico il sostrato arabo-palestinese della città contesa che, secondo la tradizione, ospita la tomba del patriarca Abramo, capostipite comune dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam. Hevron, in ebraico, Al-Khalil in arabo: l’amico. Ironica definizione per una delle aree più dense di fanatismi sionisti ultraortodossi e giornalmente colpite dagli assalti dei coloni contro ciò che resta della nativa popolazione palestinese. Delle 500 famiglie che in origine abitavano il quartiere, ne restano oggi poche decine appena. Aggressioni fisiche, schiaffi e pugni, inseguimenti con coltelli; lanci di pietre e bottiglie di vetro, urine, quando non acidi; incendi appiccati agli uliveti e alle auto, ai pochi negozi rimasti aperti, alle case; condutture idriche manomesse, tubi tagliati per dispetto, impianti elettrici distrutti, espulsioni forzate, demolizioni. Bandiere palestinesi bruciate e scritte in arabo vandalizzate. Gas the Arabs, firmato JDF (Jewish Defense League), si legge sulla porta sbarrata di una casa palestinese evacuata. Sui tetti bandierine israeliane come alla conquista dello spazio. Storia dei luoghi riscritta sulle macerie e sul sangue, cancellazione identitaria, sostituzione etnica sotto la bugia del ritorno. Nel linguaggio sionista: gestione del conflitto.

Scritta vandalica sulla porta di una casa palestinese evacuata recita Gas the Arabs, firmata JDL (Jewish Defence League)

Dai tempi della Seconda Intifada, quando ha iniziato il suo attivismo nonviolento per la riapertura della Palestine Polytechnic University, dove allora studiava, Issa Amro è stato incriminato dal tribunale militare israeliano con più di venti accuse, arrestato più volte di quante si sia attivato per difendere i suoi diritti, torturato fisicamente e psicologicamente, di continuo intimidato. Ne resta, all’indomani dell’ennesimo arresto, una notifica alla famiglia che il prossimo mercoledì 30 novembre sarà portato al tribunale militare di Ofer, a Ramallah, e l’apprensione di una comunità intera, che adesso abita il centro Sumud, tra gli ulivi la discarica e il ringhiare dei coloni eccitati, per evitare che venga occupato, e la sua storia violata, cancellata e sostituita. Se non ci fosse nessuno a guardarlo, i coloni insediati illegalmente a poche decine di metri di distanza, in ciò che chiamano Admot Yishai, e nel più recente insediamento di Beit Menachem, si insinuerebbero nella residenza già più volte dichiarata zona militare chiusa, e con il consenso manifesto travestito da protezione di militari bardati la occuperebbero, dichiarandola zona loro, inneggiando al ritorno.

La vista della città di Hebron da Beit Sumud, centro delle attività del gruppo Youth Against Settlements
I soldati evacuano Beit Sumud dichiarandola zona militare chiusa lo scorso 31 ottobre (via Twitter)
Un colono sfila con un passeggino per Shuhada Street, la strada chiusa ai palestinesi dalla fine degli anni Novanta, tra bandierine israeliane e case palestinesi serrate

An Israeli settler told me that he will take the house, he was happy that the army declared the my house as a close military zone @YASHebron , the army is working ti displace the Palestinians and give our houses to the settlers. #EthnicCleansing

Twwet di Issa Amro عيسى عمرو 🇵🇸 (@Issaamro), 6 novembre 2022

Per accedervi, dall’area H2 di Hebron, quella che contiene insediamenti al suo interno, unica zona in tutta la Cisgiordania che vede palestinesi e coloni condividere gli appartamenti, ai residenti palestinesi è imposto l’attraversamento di decine di check-point, controlli, perquisizioni, abusi, umiliazioni. Raccontano Izzat Karaki e Muhanned Qafesha, due degli attivisti di YAS, che gesticolare con le mani sopra le spalle è abbastanza per essere arrestati per sei mesi sotto l’accusa di tentato attacco a un soldato. Camminare in zone vietate, come Shuhada Street, la strada dei martiri chiusa definitivamente dalla fine degli anni Novanta, altri sei mesi. Ciò che un tempo era il mercato più vivo della Palestina, e oggi è una città fantasma, con le poche case palestinesi ancora abitate senza accesso alla strada, che si scavano tunnel negli appartamenti dei vicini per scendere ai piani inferiori, con le porte serrate per facilitare l’accesso ai coloni, e le barriere di recinzione costruite per autoproteggersi dal fanatismo degli altri; quella che una volta si attraversava a fatica perché gremita di mercanti e venditori, che da casa a scuola di Izzat si passava dal mercato del pollo e lui bambino faceva sempre tardi per quanta gente c’era, e oggi la abitano i soldati e i loro fucili, le torri di controllo, i coloni che sfilano irriverenti, il silenzio, la paura, i segni di una storia erosa e riscritta; questa città invisibile e svuotata si anima all’improvviso di cori e di furori brutalità soprusi oppressioni a ogni festività religiosa, l’ultima quella di Chayei Sarah, inaugurata lo Shabbat dello scorso 19 novembre.

Tweet di Issa Amro عيسى عمرو 🇵🇸 (@Issaamro), 19 novembre 2022

Il linguaggio mendace ed edulcorato dello stato sionista, che vede l’occupazione come difesa, la repressione sleale e impunita guerra, gli arresti arbitrari di ragazzini risposta alla minaccia terroristica,  gli omicidi effetto collaterale, la pulizia etnica misura preventiva, la distruzione di interi villaggi sterilizzazione di aree di tensione, e che teme la verità della documentazione, i video, la forza propulsiva dei social media, si pregia del benestare della vittoria politica della destra fanatica religiosa, uscita vittoriosa nelle elezioni dello scorso 1mo novembre, per uscire allo scoperto. Se il partito di Ben Gvir, rieletto parlamentare e residente nell’insediamento coloniale di Kiryat Arba, a poche strade di distanza da Beit Sumud, nella periferia di Hebron, non cambierà le politiche di espansione coloniale aggressiva e illegale dei coloni ebrei in Cisgiordania, sta però già rinvigorendo l’atteggiamento dispotico dei soldati dinnanzi alle telecamere, più sicuri di restare protetti nell’illegalità, più sfrontati nel promuovere con tracotanza messaggi di morte e sterminio.

Sulla sacca del soldato che ha aggredito le manifestazioni di venerdì 25 novembre, una toppa con un teschio incorniciato da un mirino recita one shot one kill no remorse I decide (via Twitter)

Il giorno delle manifestazioni pacifiche per la cui documentazione Amro è in arresto, dopo aver preso a pugni uno degli attivisti, un soldato israeliano si è rivolto alla fotocamera di Issa minacciando che Itamar Ben Gvir in persona metterà ordine, porrà fine a ciò che YAS sta facendo a Hebron. Poi, strafottente, io-sono-la-legge-qui-e-affermo-che-state-agendo-contro-la-legge. Un telefonino contro un M16. E neanche più il pudore di nascondersi, di edulcorare, di limitare l’aggressività di fronte alle telecamere, di fronte al mondo interessato. Sulla sacca verdemilitare carica di munizioni, accanto alla stella di David un adesivo con un teschio incorniciato da un mirino, e la scritta one shot one kill no remorse I decide. Un colpo un morto nessun rimorso decido io.

Libano

Storia della rivoluzione e della ricostruzione permanente

di Valeria Rando


Questa storia ha della speranza e dello sconforto, un po’ come quella del Paese che l’ha ospitata. Cento volte distrutto – e altrettante ricostruito – il Libano si trova al centro di una delicatissima regione geopolitica, sventrato da decenni di guerre e di occupazioni, pieno di risorse e di capacità, ma in perenne naufragio: e senza più forza per proteggersi.

Questo, almeno, a detta della testimonianza delle vecchie generazioni – educate a null’altro che all’adattamento alla tragedia e alla sfiducia nei governi. Quelle che hanno dovuto affrontare gli effetti del conflitto israelo-palestinese, con l’ondata di rifugiati che ne derivò; subire l’invasione israeliana, poi quella siriana; assistere impotenti all’umiliazione dell’assedio di Beirut – era la prima volta che in una capitale araba marciavano soldati israeliani – e agli orrori che con essi arrivarono; patire i bombardamenti, le migliaia di morti tra i civili; credere nella rivoluzione e ritrovarsi nelle mani di Hezbollah; sospirare sulle ipocrisie della pace, sulla corruzione dei governi, sui lasciti devastanti dell’inflazione; patire la fame per rimpiangere la guerra; odiare il proprio fratello sunnita, sciita o cristiano, per poi perdonarlo, e sorprendersi di trovarsi sempre lì: ancora frodati dalle profonde contraddizioni della religione.

La storia del Libano nasce da un sogno trasformatosi in chimera prima, e in incubo poi: quello del confessionalismo, il sistema di rappresentanza politica su base religiosa che, nel pretesto dell’equa distribuzione del potere tra le comunità, ha negli anni incatenato il Paese, abbandonando i governi alla corruzione, e il popolo alla miseria. È contro di esso che, a partire dall’ottobre 2019, la gioventù – la meglio gioventù libanese – si è mobilitata, trasversalmente, unanimemente e al di là di ciò che definisce e separa: appunto, le barriere confessionali. Migliaia di giovani studenti, donne e uomini, di qualsiasi credo religioso e in tutte le città del Paese, si sono stretti attorno al grido di «thawra, thawra!» – rivoluzione – chiedendo le dimissioni del governo e la fine del sistema settario.

Le proteste dell’ottobre 2019

Il casus della protesta è stato estremamente simbolico: l’ennesima tassa – questa volta su WhatsApp, di 20 centesimi al giorno – imposta dal governo di Saad Hariri nel tentativo di reagire a uno dei debiti pubblici più alti al mondo. In un Paese in cui l’economia è al collasso, e l’1% della popolazione detiene il 58% della ricchezza, sfiancato dal carovita conseguente all’inflazione e derubato dalla negligenza della sua classe politica, il popolo libanese inizia a patire la fame.

La giornalista Gisèle Khoury, intervistata in un reportage pubblicato da Q Code Magazine nel gennaio 2021, piena di sconforto, testimonia: Vedere i vicini al supermercato guardare una volta, due volte, il prezzo dello zucchero, del riso, del caffè, persino del pane, prima di metterli nel cestino, non l’abbiamo mai vissuto in Libano.

Cassaforte del Medio Oriente per i tassi di interesse convenientissimi – il meccanismo economico libanese si è inceppato nel 2011, con la crisi siriana, quando il Paese si vide costretto ad accogliere 1,5 milioni di rifugiati, circa un quarto della sua popolazione. Da allora, il valore della lira libanese è crollato improvvisamente, trascinandosi dietro un popolo intero; la gente volle ritirare in massa i propri risparmi, e il sistema, inevitabilmente, fallì. File di persone in attesa, con le porte delle banche chiuse; anziani che tentavano di recuperare quel poco che restava loro; niente più fiducia nella gestione governativa delle risorse: è anche contro di questo che sono esplose le proteste.

Su Facebook ho tutte le foto della rivoluzione, ma ho dovuto vendere il telefono per mangiare – dice fiero Mohamed in un bilocale condiviso con altre otto persone. Ma poi si rattrista: Quindi non ho più un telefono, devo pur mangiare. Se ho qualcosa da vendere la vendo, perché non voglio elemosinare: sarebbe troppo.

Era dalla Prima Guerra Mondiale che non si assisteva a una tale miseria. Al punto che, come spesso accade, si è finiti per rimpiangere il passato: anche se a fiaccare, se a uccidere, allora, erano le bombe. Era più facile durante la guerra. C’erano i soldi e le cose non costavano così tanto. Non ci mancava nulla, oggi è molto più dura. Oggi, è peggio che durante la guerra civile. C’erano i bombardamenti, ma c’era lavoro.

Oggi è più dura della guerra perché la gente ha fame. È la guerra della fame.

La ripresa degli slogan contro l’occupazione siriana

Qualcuno l’ha definita una primavera tardiva, senza pensare che in Libano, una rivolta, c’era già stata. Fu la prima delle primavere politiche che avrebbero scosso i Paesi del mondo arabo, partendo dalla Tunisia per coinvolgere Egitto, Siria, Libia, Bahrein, Algeria, ed estendersi progressivamente alle altre aree del Medio e Vicino Oriente e del Nord Africa – e alla cui onda d’urto, all’apparenza, il Paese dei cedri resistette.

L’ideale della convivenza pacifica tra comunità equamente rappresentate, inscritta nel cuore dell’identità nazionale libanese, è stato tradito da decenni di guerre civili, occupazioni e crisi economiche. Basti, per comprenderlo, una tragica sequenza di eventi scatenati dagli effetti del conflitto israelo-palestinese nel già instabile panorama mediorientale: quando, nell’aprile del ’75, a Beirut – ormai retroguardia dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina capeggiata da Yasser Arafat –, soggetti ignoti spararono a un leader cristiano, i suoi sostenitori risposero massacrando dei militanti palestinesi su un bus. Dopo appena sei mesi da quell’episodio, una linea di demarcazione divideva la capitale, esiliando a est i cristiani, a ovest i musulmani. Fu l’inizio della guerra, che in 15 anni avrebbe causato 150mila morti, 300mila feriti e centinaia di migliaia di esiliati.

Temendo che la guerra civile libanese potesse destabilizzarne il territorio, la Siria di Hafiz al-Assad si adoperò nel contenimento delle migrazioni dei cristiani – che si spostavano verso est – proteggendo militarmente i suoi confini. Venute per portare la pace, le forze siriane si trasformano in esercito di occupazione, nutrendosi delle risorse libanesi fino a prosciugarle: i traffici di contrabbando, i metodi di matrice simil-mafiosa nel controllo del territorio – come l’imposizione del pizzo a ogni posto di blocco –, le stragi di civili non si sarebbero interrotti neppure con gli accordi di Ta’if del 1989. Bashar al-Assad, seguito a suo padre, nuovo alleato dell’Iran – che attraverso gli sciiti di Hezbollah ha trovato in Libano una frontiera alternativa contro Israele – all’inizio degli anni 2000, dopo 30 anni dall’inizio della guerra, tornò a occupare il Paese: da allora, reati, torture e sequestri non risparmiarono nessuna famiglia libanese.

Finché nel 2004 l’allora primo ministro Rafiq Hariri non decise di allearsi con gli Stati Uniti, considerati i vincitori dei conflitti in Medio Oriente, per porre fine al protettorato siriano: ma appena sei mesi dopo gli accordi con l’ONU per la cacciata dell’esercito di Assad, finì assassinato. La sua morte fu come un terremoto. Una protesta di massa, a Beirut, chiese la fine dell’occupazione: iniziò così la Rivoluzione dei cedri, la prima delle primavere arabe.

Si chiedevano verità e democrazia, fine della corruzione e del confessionalismo, condizioni di vita dignitose. Il 2 giugno 2005, uno dei leader della rivoluzione – il docente, giornalista e attivista, intellettuale militante, uomo in perenne rivolta contro l’ingiustizia, nonché marito di Gisèle Khoury, Samir Kassir  – venne ucciso da un’autobomba.

Erano omicidi contro il futuro, ammette Gisèle. Avevano capito che quei leader erano il futuro del Paese. E oggi, 15 anni dopo, i giovani riprendono i loro slogan. Uno stato di diritto, un Paese democratico, un sistema politico che deve finire.

Insieme a Samir Kassir, in meno di un anno 12 libanesi vennero assassinati: politici o giornalisti, lottavano tutti per la democrazia e la fine del confessionalismo. E come se il Libano non meritasse la pace, un anno dopo la partenza dei siriani, venne nuovamente invaso dai carri armati israeliani, chiamati dal pretesto della lotta contro Hezbollah. Migliaia di civili vennero uccisi, e tutte le infrastrutture risultarono, ancora una volta, da ricostruire. Eppure, per il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, si trattò di una vittoria storica: Stato nello Stato, il Partito di Dio si sarebbe imposto sugli altri partiti – spegnendo le successive rivolte e il desiderio di cambiamento dei giovani libanesi.

Oggi come allora, Hezbollah – o la fame che prostra e svilisce, e rende mansueti più della paura – ha svuotato le piazze. Un popolo affamato è cattivo, grida, smania e sfuria: ma uno piegato dalla fame si riduce al silenzio.

L’esplosione nel porto di Beirut

A risvegliare lo spirito rivoluzionario delle giovani generazioni è stata la sorpresa della catastrofe: lo scorso 4 agosto, 2700 tonnellate di nitrato d’ammonio hanno polverizzato in pochi istanti il porto di Beirut, causando 200 morti, 7000 feriti e centinaia di migliaia di sfollati.

Benché ostaggio delle principali potenze dell’area, degli interessi europei e statunitensi, il più profondo e letale cancro del Libano sta nella negligenza della sua classe dirigente. Non è un caso, infatti, che l’esplosione sia stata letta come il risultato inevitabile di tutti i mali del Paese, a partire dalla corruzione della classe dirigente, che per decenni ha derubato e disprezzato il suo popolo: e che adesso si ritrova interrotto sul bivio tra il restare e il partire.

La fine di questa lunga storia di sconforto e di speranza è quella di una separazione. Gisèle si prepara alla partenza, lavorerà negli Emirati Arabi Uniti: ma non sua figlia Rana. Nella generale compassione che la tragedia scatena, una nuova sete di giustizia – meno rabbiosa, forse affaticata, flebile, triste: ma autentica – sembra star scuotendo le giovani generazioni. Dal giorno dopo l’esplosione, migliaia di volontari provenienti da tutte le comunità si sono mobilitati per soccorrere i sopravvissuti: sgomberando a mani nude le strade dalle macerie, rafforzando reciprocamente il proprio impegno, partendo dalla ricostruzione civica – quella delle relazioni – per rimettere in piedi la città incenerita.

Faccio al contrario, di solito se ne vanno i figli, non i genitori. Sono io ad andarmene – da tutto. Io ho subito la guerra, ho subito gli orrori della guerra, ho subito l’emigrazione. Ho subito la mediocrità della classe politica. Ho subito l’egemonia siriana. Ho subito l’invasione israeliana. Siamo una generazione che è stata sacrificata. Abbiamo trasmesso ai nostri figli che senza libertà il Paese non c’è.

In un Libano che è stanco di adattarsi, e freme di trasformare, la meglio gioventù resta: convinta che in fondo, per fare un Paese, possa bastare questo. Restare.


Sitografia

QCode Magazine, Libano: l’ostaggio del Medio Oriente

https://www.qcodemag.it/indice/reportage/libano-lostaggio-del-medio-oriente/?fbclid=IwAR0z44yKRuWuH7gCrf_QJG2p5HoA2CIGWzh6pfv-LM6gxCil7PTogI65j0Y

Lorenzo Forlani per Non Dalla Guerra, Libano, a un anno dall’inizio delle proteste

http://www.nondallaguerra.it/2020/11/13/libano-tra-pandemia-e-crisi-economica-2/?utm_source=LISTA+MAIL&utm_campaign=ca68a21832-EMAIL_CAMPAIGN_2019_10_08_12_49_COPY_28&utm_medium=email&utm_term=0_9841ac1402-ca68a21832-330304225

Per le testimonianze sulla ricostruzione seguita all’esplosione, si vedano i lavori curati dalle giornaliste freelance Sara Manisera e Arianna Pagani del collettivo FADA

Quei fantasmi che mai avrei pensato potessero essere anche i miei

Perché essere femministe fa male

di Grazia Enerina Pisano


Leggere “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir fa male, anche se sono passati 72 anni dalla prima pubblicazione dell’opera, anche se siamo figlie del XXI secolo, anche se gridiamo a gran voce di non esserci mai sentite discriminate in quanto donne. 

Ma le parole di Simone de Beauvoir arrivano dritte al cuore e il suo dito puntato ci fa tremare tutte.

Perché Simone de Beauvoir non giustifica niente e nessuno: né le donne narcisiste, né quelle innamorate; né le donne etero, né le lesbiche; né le donne religiose e neanche le mogli; né le madri e né le figlie. E neppure le donne indipendenti. 

Perché Simone de Beauvoir passa in rassegna l’intera storia delle donne, mostrando come, fin dall’età della pietra, e così per secoli, questa sia sempre stata in mano agli uomini, alle loro decisioni e alle loro concessioni. E se i grandi nomi, quali quelli delle regine Isabella di Castiglia, Elisabetta I o Caterina II potrebbero dimostrare il contrario, le loro grandi imprese non furono di certo dettate dal loro ruolo di donne ma dall’essere sovrane: condizioni eccezionali dunque.  

Perché se l’identificazione dell’umanità intera con il termine ”Uomo” può apparire come un’affermazione neutrale, di fatto secoli di storia fatta da “uomini” e di “uomini” colorano l’affermazione di giochi di potere troppo spesso invisibili, ma duraturi, che hanno contribuito a relegare le donne in un ruolo di “oggetto”, immanentemente “altro” rispetto al soggetto, trascendentalmente “uomo”. 

Atteggiamento ipocrita sarebbe ignorare i miglioramenti della condizione femminile, figli di battaglie e mai di rivoluzioni.

Ma certe questioni, evidenziate da Simone de Beauvoir in quell’opera diventata “Bibbia” della questione femminile, rimbombano a distanza di decenni più forti che mai, obbligandomi a mettere in discussione il mio vissuto, troppo spesso considerato come “naturale” e “ovvio”. 

Così oggi mi chiedo: “Quante battaglie dobbiamo ancora combattere per vincere la guerra? Per essere, finalmente, riconosciute come “esseri umani”?”

E quei fantasmi che mai avrei pensato potessero essere anche i miei, da un po’ di tempo, hanno cominciato a esistere pure per me, facendo tremare tutte le mie certezze di giovane donna privilegiata del XXI secolo, capaci di rimettere in discussione l’intero sistema sociale, educativo e culturale, di noi donne e uomini. 

Perché Simone de Beauvoir mi fa ripensare a tutte le volte in cui mi è stato detto di sedermi composta, sopratutto se indossavo una gonna. 

A tutte quelle volte in cui ho voluto giocare a calcio con i miei compagnetti maschi, mentre tante altre bambine rimanevano a fare il tifo in panchina, quasi fosse “naturale” assumere quel ruolo.

A quando ai miei amichetti è stato detto di non piangere perché gli uomini non piangono e a me è stato insegnato come ridere, non troppo forte e non in maniera sguaiata, per evitare di sembrare  una sciocca. 

A quando le bambine aiutavano ad apparecchiare insieme alla madri, mentre gli uomini parlavano di affari. 

A quando le mie compagne nascondevano gli assorbenti nel periodo del ciclo e i maschi inorridivano alla sola vista, come se ancora fossimo “impure”, come se ancora vivessimo negli anni Cinquanta, quando una donna con le mestruazioni non poteva partecipare alla preparazione del pane perché “sennò non avrebbe lievitato” e tanto meno fare la maionese, per evitare che le uova impazzissero. 

A quando i ragazzi si vantavano delle prime esperienze sessuali, conferma del proprio valore, e la ragazza della scuola con una vita sessuale più attiva delle altre veniva additata da tutti e tutte come “puttana”. Perché l’insulto preferito nei confronti di una donna antipatica, di cui spesso si è invidiose o si ha paura, è “troia”, mentre un uomo è sempre “stronzo”. 

E così la verginità, a distanza di secoli, rimane comunque sacra, da concedere al prescelto, a quello giusto. E tutt’oggi in alcuni paesi del mondo (e fino a qualche decennio fa anche in Italia), dopo la prima notte di nozze, viene esposto il lenzuolo, prova tangibile della purezza della ragazza, appena diventata “donna”. 

Perché il sesso per gli uomini è coestensione della vita personale e sociale, una cosa naturale; mentre per le donne, ancora oggi, la sola masturbazione continua a essere un tabù: una pratica sconosciuta a tantissime giovani donne, come se il sesso non le riguardasse, ridotte al solo ruolo di oggetto di desiderio da soddisfare.

E in piena pubertà ai ragazzi viene fatto il discorso sui rapporti sessuali e sull’utilizzo delle eventuali precauzioni, mentre si spera che le ragazze imparino da sole, prima che sia troppo tardi, quasi non si volesse ammettere che anche queste sono fatte di carne, ormoni e bisogni fisiologico-sessuali, proprio come gli uomini.

E le donne non sanno parcheggiare e gli uomini non sanno stirare. 

I lavori di casa sono “compiti da donna” e se uno dei due deve lavorare, meglio che sia l’uomo a portare la pagnotta a casa. 

Perché tutti, senza distinzione di genere, continuiamo a fidarci più degli uomini che delle donne e un uomo avvocato ci sembra più competente di una donna, “ché chissà come ci è arrivata lì” e ci rincuora se rimane a fare la segretaria. 

Simone de Beauvoir mi fa ripensare a quando mi è stato detto che una donna ubriaca è peggio di un uomo sbronzo perché la “donna ha sempre la peggio”, come se eventuali violenze dipendessero da lei e non dalla bestialità dell’altro.

A quando ho dovuto sentire: “Se l’è cercata” dopo una notizia di stupro. 

A quando ho avuto paura di tornare a casa da sola di notte, dopo aver salutato i miei amici che con il cuore leggero si avvivano dalla parte opposta. 

E io ho afferrato le chiavi e ho accelerato il passo, “ché non si sa mai”. 

A quando sono stata fischiata per strada, soltanto perché indossavo dei pantaloncini corti in piena estate, con 40 gradi. 

A quando mi è stato detto che è giusto che gli assorbenti siano tassati al 22% di IVA perché le “donne potrebbero tranquillamente vivere senza” e ho cominciato a chiedermi come potesse essere possibile, senza avere ancora trovato una risposta. 

Perché un uomo sovrappeso non viene discriminato quanto una donna che, relegata alla stregua di oggetto indesiderabile, incapace di risvegliare la libido maschile, viene così privata della sua condizione di essere umano. 

Perché un uomo adulto un po’ brizzolato, come il vino, matura invecchiando, mentre una donna deve aggrapparsi al tempo che scorre, in una lotta inesorabilmente senza vittoria contro l’invecchiamento, la pelle cadente e i capelli bianchi. 

Perché noi donne pensiamo costantemente all’Amore, sogniamo di innamorarci e aspettiamo il principe azzurro, forse per paura di restare sole: perché un uomo single è “figo” e una donna sola è “patetica”. 

“Perché chissà quante ragnatele lì sotto”. 

Perché mi chiedo quanto dovremmo aspettare prima di conoscere un Capo dello Stato donna o una Presidente del Consiglio; e quanto tempo dovrà passare prima che le donne, a pari merito e a pari livello lavorativo, siano pagate quanto gli uomini, soprattutto nel settore privato.

E i tempi moderni non sembrano di certo andare nella giusta direzione.

Perché, secondo i dati Istat, durante la pandemia su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne: il 98% di coloro che hanno perso il lavoro.

Perché a distanza di 43 anni dalla promulgazione della legge n°194 del 22 maggio 1978, ratificata nel referendum del 1980, circa il 70% dei ginecologi italiani, dunque 7 su 10, attualmente sono obiettori di coscienza; perché molti medici si oppongono alla prescrizione della pillola anticoncezionale, perché tanti farmacisti si rifiutano di venderla (nonostante la ricetta medica) e perché la giunta della regione Marche capeggiata da Fratelli d’Italia ha deciso di vietare l’uso della pillola abortiva RU 486 nei consultori. 

Perché in Italia viene uccisa una donna ogni tre giorni, tra femminicidi e femminicidi-suicidi. 

Perché Simone de Beauvoir mi porta a chiedermi cosa significhi essere donna. Forse essere vagina-dotate? 

E cosa significa essere uomo? Forse essere pene-dotati? 

“Donne non si nasce, lo si diventa”, scriveva nel 1949 Simone de Beauvoir. 

E io oggi mi chiedo come lo si diventi: forse diventando madre? Forse diventando moglie? Forse diventando lavoratrici autonome o assumendo un ruolo sociale di prestigio?

O forse, semplicemente, si diventa donne diventando esseri umani. 

Semplici esseri umani. 

Perché è inutile lottare per qualsiasi diritto, sia questo di voto o uguale paga salariale, se, ancora oggi, nel 2021, alle donne non viene assicurato il diritto alla vita. 

Alla semplice e sola esistenza. 

Moria ovvero l’isola della morte

di Valeria Rando


È stato questa mattina, nello spazio sicuro e ombreggiato della mia cucina: lo stesso in cui trascorro le ore in attesa che il sole nasca, e che la giornata, per la città, si decida a cominciare. Ma avrebbe potuto essere una mattina qualsiasi di queste settimane trascinate nell’ombra e nell’odore di caffè, una qualunque del sorgere di questi ultimi mesi d’ozio e di clausura, in cui gli echi dal mondo non giungono se non sottoforma di vento, parole fumose e lontananze. Leggevo, ancora intorpidita dal sonno aurorale, le notizie sul campo profughi di Moria, nel centro arido e afoso della Grecia insulare, sul bordo del confine turco, in questo settembre dal calore ancora residuale di agosto: talmente secco da parere pungente. E inconsciamente, nello sbalzo imprevisto della lettura silenziosa, il lapsus: Moria o Morìa, isola della morte.

È Moria, il campo profughi che nel 2015 è stato inaugurato sull’isola greca di Lesbo. Centro di fortuna sorto tra gli ulivi; luogo di misericordia e benevolenza; accampamento temporaneo in cui i profughi migranti trovavano ristoro, prima di proseguire lungo la rotta balcanica e raggiungere l’Europa, accolti e benvoluti dalla popolazione locale e dai numerosissimi volontari: la sua evoluzione – che ha assunto, negli anni, i tratti topici di una regressione – sembra rispecchiare l’atteggiamento mutevole del continente nei confronti delle politiche migratorie, passato repentinamente dalla celebrazione dell’accoglienza alla più totale incuranza e sprezzo della miseria. Che è, eufemisticamente, un’altra insulsa e svuotata parola per dire morte: per quanto infondo, Moria-morìa, l’aria funebre del cimitero l’avesse da anni. Il campo stentava nella morte-miseria del vivere in ventimila in uno spazio pensato per tremila persone; in quella della mancanza di cure e servizi igienicosanitari dignitosi e adeguati; della poca acqua, dei bagni scarsi e inaccessibili ai minori non accompagnati, pena il rischio di non trovare la strada di ritorno, di finire derubati del niente che si possiede, d’essere stuprati. E che tentava di sopravvivere nel dramma teatrale del sacrificio: della stessa, miserabile morte di fuoco dei bonzi del Vientam, immolatisi nelle fiamme per far luce sulle disumane condizioni dei buddhisti nel paese; o di quella di Jan Palach, scintilla umana della Primavera di Praga. Così gli incendi che da mesi, stimolati dalla paura dell’epidemia, sorgono tra i cumuli d’immondizia cui un tempo si sostituivano uliveti, mi piace pensarli tinti della stessa ansia di rivoluzione che sottende a qualsiasi protesta. Guardateci, sembrano gridare, non ne possiamo più. Finché una combustione più crudele delle precedenti, esito di una sopportazione non più sostenibile – poco importa se umana o fatalistica: quando la crudeltà del cielo è tale da soverchiare l’inezia delle sue vittime, non è più dato domandarselo – non ha spazzato via l’ultima, sbriciolata illusione umana di sovversione dell’ordine di natura: di imposizione della stasi sulla dinamica del flusso: di sedentarizzazione coatta del migrare.

Il panico generato dalla pandemia ha reso nota – con la stessa velocità con cui si è tornati all’indifferenza – la condizione d’insostenibile prigionia di uno spazio trasformatosi da stazione temporanea in stabile galera, e all’improvviso, qualche manciata di ore o giorni fa – nell’ombra appartata delle nostre cucine non fa differenza –, da stabile galera in cenere primordiale. Nato come un giardino d’acqua nel deserto, fino a ieri Moira era una baraccopoli in cui entrare era inevitabile e uscire impossibile. Oggi, della prigione a cielo aperto che fu, non resta altro che un ammasso di scheletri di tende e vettovaglie incenerite; le fiamme dell’incendio di martedì sembrano aver cancellato persino le impronte delle generazioni che l’hanno attraversato. Una città invisibile, così come Calvino non avrebbe potuto pensarla mai: perché tale invisibilità non trova spiegazione nell’essere improgettata, quanto nella concretezza esperita del suo ciclo biologico: concepita, realizzata, vissuta, decaduta, e inesorabilmente estinta. Così, famiglie di esuli camminano sommessamente lungo la strada, senza parlare poiché devastati dal caldo, mesti, in un interminabile corteo funebre verso una nuova meta. La Germania, hanno chiesto: quella che appena un secolo fa chiamavamo America, e che un cristiano non esiterebbe a invocare come Paradiso. Ma pare che solo le poche centinaia di minori non accompagnati avranno accesso a una possibilità di redenzione: i soli a cui l’Europa sa guardare con pietà, dopo aver pianto i suoi anziani decimati dalla pandemia, disprezzando chiunque osasse gerarchizzare i morti. Ebbene adesso, immemore, ella gerarchizza i vivi.

Ma su un’altra, più sfrontata dunque atroce violazione dell’interdizione, le fiamme degli incendi paiono aver gettato una luce fioca e fumosa: il controllo del movimento, controllo dei corpi. La scritta “Libertà di movimento” incisa dalla rabbia su un muretto crollante è uno dei pochi segni di vita miracolosamente sopravvissuti alle fiamme del campo: l’aria fantasmatica e desolata in cui solo i curiosi osano affacciarsi, sembrerebbe aver riportato il migrante alla sua natura fluida e dinamica – il libero movimento. Ma solo temporaneamente, nell’attesa di una nuova, dominata sistemazione. Moria, infatti, non sarà ricostruita, ma si prevede che le migliaia di famiglie di profughi – abitate dai padri e dalle madri di cui non sappiamo aver pena – saranno sistemate su traghetti: campi galleggianti, isole in mezzo allo stesso mare che ne ha interrotto le migrazioni, probabilmente destinati a finire sigillati con il pretesto della pandemia. Ma che alla fine, benché isolati, esploderanno: e i detriti dell’esplosione finiranno per raggiungere anche noi, intorpiditi nell’alba e nell’odore del caffè.

C’è un bel dire a proposito della presunta insularità di Lesbo: un po’ come quella africana, guardata dalla stabilità continentale da cui l’Italia si affaccia, a penzoloni; un po’ come quella mediorientale, che i Balcani, tremolanti come un muro di sabbia, separano dall’Europa, proteggendola dalle tensioni ventose dell’Est; un po’ come quella, metaforica, di qualsiasi provincia, se guardata dalla città – o delle periferie, di là dalle stazioni, dalla prospettiva di un centro storico. Così è Lesbo. Isola non tanto perché cinta dalle acque del mar Egeo, ma perché stupidamente creduta uniforme: quasi che i suoi confini geologici ne segnassero, stabilizzandola e appiattendola, l’identità. Così era Moria, isola nell’isola creata per definire il noi in relazione a un loro qualsiasi: afghano, somalo, curdo, siriano, sunnita, sciita, cattolico, ortodosso; indubbiamente profugo. Moria, cinta da recinzioni metalliche e fili spinati e per questo creduta intoccabile; Moria, spazio di segregazione permanente del migrante divenuto, contronatura, stanziale. Campo mutato in ghetto e poi in città, regolato dalle sue relazioni interiori, e inverosimilmente destinato ad essere trasferito su una nave: quasi che due mani raccolte a conchiglia potessero chinarsi su quel che resta dell’isola della morte e riporne la poltiglia di sopravvissuti misti a cenere su un altro basamento qualsiasi, per quanto instabile, e permetterci di ignorarlo fino al tempo in cui s’innalzeranno le prossime colonne di fumo.

Il fascismo è superato

O almeno così vogliono farci credere

di Grazia Enerina Pisano

La quotidianità come eravamo abituati a considerarla non esiste più. Le nostre vite sono state messe in pausa. Il mondo esterno appare troppo distante per preoccuparcene.

E nella giornata di ieri Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato, membro del “partito” Fratelli d’Italia, dichiara: “Con alcuni parlamentari abbiamo avanzato una proposta rivolta a tutti, senza distinzioni politiche e culturali: da quest’anno il 25 aprile diventi, anziché diviso, giornata di concordia nazionale nella quale ricordare i caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna. E in questa data si accomuni anche il ricordo di tutte le vittime del Covid-19”. Non soddisfatto, aggiunge: “Sarebbe il modo migliore per ripartire in un’Italia finalmente capace, dopo 75 anni da quel lontano 1945, di privilegiare ciò che ci unisce e ci rende tutti orgogliosi di essere italiani. Nel ricordo dei caduti, chi vorrà, sabato prossimo potrà listare a lutto un tricolore e cantare la canzone del Piave che da sempre le Forze armate dedicano ai caduti di ogni guerra”.

Ma facciamo un po’ d’ordine, non quello ideologico, che facilmente potrebbe essere scambiato per propaganda, ma storico.

Il 25 aprile è festa nazionale. Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo e, poiché l’Italia con la sua Costituzione è un paese dichiaratamente antifascista, il 25 aprile è festa nazionale. Se non ci fosse stato il fascismo e se non ci fosse stata la necessità di liberare l’Italia dal regime totalitario fascista, il 25 aprile non sarebbe stato un giorno di festa nazionale. E sicuramente l’Onorevole La Russa avrebbe facilmente trovato un altro giorno per ricordare i caduti di tutte le guerre, senza esclusione alcuna.

Ma il 25 aprile non è solo la Festa della Liberazione, il 25 aprile segna anche la fine della Repubblica Sociale Italiana, stato fantoccio governato da Benito Mussolini, ricordata ancora oggi, dopo 75 anni da quel lontano 1945, con un bel braccio teso dai nostalgici camerati.

L’articolo 21 della nostra Costituzione, figlia della sincronia intellettuale dei padri costituenti rappresentanti di tutte le forze politiche (dalla Democrazia Cristiana al Partito Comunista Italiano, dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria al Fronte dell’Uomo Qualunque), recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione… sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. Ma essere fascisti è o non è contrario buon costume? O meglio, affinché il senso del discorso non venga nuovamente scambiato per propaganda, nel caso dell’Onorevole La Russa, essere contro l’antifascismo è pro o contro il buon costume?

Certo, termini come “Unità Proletaria” o addirittura “Partito Comunista” potrebbero richiamare alla mente oscure realtà totalitarie baffute, ma gli ideali che animavano i combattenti della Resistenza erano ben diversi da quelli del “Grande Fratello”. I partigiani per lo più ventenni, provenienti da ogni estrazione sociale, volontari nella lotta armata al fascismo, appartenevano a differenti forze politiche, tutte però concordi nella lotta al regime, in nome di una Libertà vera e per tutti. E’ il caso delle Brigate Garibaldi, organizzate dal PCI; delle formazioni di Giustizia e Libertà, coordinate dal Partito d’Azione; delle formazioni Giacomo Matteotti del Partito Socialista; delle Brigate Fiamme Verdi, nate autonome per iniziativa di alcuni ufficiali alpini, legate poi alla Democrazia Cristiana nelle Brigate del Popolo; le Brigate Osoppo, autonome e legate alla DC; le formazioni azzurre, autonome e politicamente monarchiche e badogliane; le piccole formazioni legate ai liberali o quelle anarchiche o trotskiste, quali Bandiera Rossa. Non solo comunisti, non solo proletari, non solo socialisti, dunque. Ma anche appartenenti a quella Democrazia Cristiana non ancora infangata dall’individualismo e dalla sete di potere, o di gloria. Tutti, indistintamente, (r)esistevano in nome di un obiettivo comune, di una Libertà comune, al di sopra di ogni fazione politica. Perché al tempo non ci si chiedeva cosa fosse la destra o la sinistra, oggi concetti ridotti all’osso. Ma ci si domandava se fosse meglio morire prigionieri sotto regime o rischiare la vita e morire finalmente da uomini liberi.

I caduti nella Resistenza italiana sono stati complessivamente 44700, altri 21200 i mutilati o invalidi. 35mila furono le donne partigiane e di loro 1070 caddero in combattimento, 4653 furono arrestate e torturate, oltre 2750 deportate in Germania e 2812 fucilate o impiccate.

Certo, si potrebbe dedicare il 25 aprile a tutte le vittime di ogni guerra. Magari vittime che eseguivano solo gli ordini. Vittime senza esclusione alcuna.

In un’unica giornata, casualmente nella data del 25 aprile, si potrebbero passare in rassegna le vittime dell’eccidio di Marzabotto (BO), insieme ai morti dell’attentato di Via Rasella a Roma. Nell’appennino, in provincia di Bologna, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, i soldati tedeschi massacrarono 7 partigiani e 721 civili, cioè uomini, donne, vecchi e bambini inermi; mentre, a seguito di un’azione della Resistenza romana, il 23 maggio 1944, in Via Rasella furono uccisi 33 soldati tedeschi. A questi militari dell’esercito tedesco, il 24 maggio, seguì la rappresaglia tedesca consumata con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui furono uccisi 335 prigionieri estranei all’attentato e 10 casuali civili. Dieci uomini per ogni tedesco. O meglio, nazista.

E allora nel grande marasma del 25 aprile, tra tutte le vittime, senza esclusione alcuna, mettiamoci pure i morti della Guerra di Libia, della Guerra di Spagna, della Guerra di Grecia, della Guerra di Etiopia, della Guerra di Russia; e perché no, anche i morti di peste, colera, influenza e Coronavirus. Che tanto morti, sono morti, che differenza ci potrà mai essere?

Ricordiamo i caduti di tutte le guerre e tutte le vittime, senza distinzione alcuna. Per essere finalmente un’Italia unita, senza distinzioni politiche e culturali.

Purtroppo, però, le distinzioni politiche ci sono e oggi sono più nette che mai. Non saprei come spiegarlo ma, sebbene fieri di essere italiani, l’idea di sostituire Bella Ciao, con il motivetto postbellico del Piave che, calmo e placido, mormorava, al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio 1915, prima di una serie di disfatte nel corso della Prima Guerra mondiale, mi sembra una decisione un po’ audace. O meglio, una scelta che delinea nettamente le distinzioni politiche e culturali presenti all’interno del nostro paese.

Perché cultura, purtroppo, non è solo essere in possesso di un titolo o di una laurea, ma anche avere senso civico ed essere in grado di discernere il giusto da ciò che non lo è. Perché purtroppo, o per fortuna (questo dipende dai punti di vista), anche in questa storia c’è un bene e un male, come prescritto dall’articolo 4 della Legge Scelba. E, sebbene alcuni politici lo dimentichino, postando su Twitter la musichetta di una pubblicità di Sky a ritmo di Faccetta nera (vedi post di La Russa in data 14 aprile su Twitter), l’apologia di fascismo è un reato in Italia.

Ma per quanto il fascismo sembri superato, o almeno così vogliono farci credere, sulla lapide del cimitero di Casaglia di Monte Sole, rimane scritto “La nostra pietà per loro significhi che tutti gli uomini e le donne sappiano vigilare, perché mai più il nazifascismo risorga”. In quel paese in cui, nella chiesa di Santa Maria Assunta, si rifugiò l’intera popolazione: furono 195 le vittime, di cui 50 bambini, che diedero inizio alla Strage di Marzabotto, durante la quale nessuno fu risparmiato.

Marzabotto che, ancora oggi, con il suo Monte Sole, ospita ogni anno migliaia di uomini, donne e bambini pronti a scalare, cantare, ballare e ricordare.

Soprattutto ricordare.

Nel tentativo che la memoria non si perda nell’oblio del tempo e il fiore del partigiano fiorisca ancora.  

Elogio della paura

Su Natalia Ginzburg e sulla viltà della menzogna

di Valeria Rando


«C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all’improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie.»

È di Natalia Ginzburg la voce che leggete, cadenzata e composta come se stesse narrando una fiaba della sera dal titolo Il figlio dell’uomo. E che tuttavia colpisce, cauta e audace insieme, con la forza di un proiettile conficcato nella carne viva. È un elogio della paura, della brutalità del vero, dei sentimenti atroci di chi sopravvive alle macerie e non sa più fidarsi di un cielo sgombro di aerei. La storia dei figli di uomini che la guerra l’han conosciuta nelle questure; degli antifascisti per i quali il terrore ha avuto il suono d’una scampanellata notturna: pronta a disturbarne il sonno anche quando le fughe e le perquisizioni non avrebbero più avuto ragione d’esistere e l’incubo della casa quieta lasciata dietro di sé, nel silenzio della notte, si sarebbe finalmente estinto.

«Non guariremo più di questa guerra. È inutile. Non saremo mai più gente serena, gente che pensa e studia e compone la sua vita in pace. Vedete cosa è stato fatto delle nostre case. Vedete cosa è stato fatto di noi. Non saremo mai più gente tranquilla.»

Vedete. Vedete e leggetela, la voce scarna e spigolosa della Ginzburg, e non abbiate timore di avere paura. Ve ne parlo come una che nei racconti di guerra si rifugia non per trovarvi inutili e speranzose assonanze, ma per fiutarvi il terrore del perseguitato, del confinato, del dissidente – e provare a capire quello dell’isolato, certo diverso ma non meno complesso, che il nostro tempo non ha il coraggio di raccontare. E non perché quella al virus sia una nuova guerra mondiale e i medici e gli infermieri i partigiani dei nostri giorni: ma perché la vostra generazione – quella degli adulti, degli insegnanti, dei filosofi e degli intellettuali – pare preferire la menzogna di un mondo quietato all’atroce brutalità dell’esitazione. La fermezza della finzione all’incertezza del dopo, al non saper rispondere ai bambini che ingenui ci chiedono come ci ritroveremo quando tutto sarà finito.

Pare che l’uomo non sappia vivere la sua condizione se non nell’attesa o nella nostalgia di tempi remoti. Pensateci. Fino a ieri, che vivevamo liberi e carnali e vivi per le strade aperte, la vostra letteratura parlava di silenzi, solitudini, guerre e peccati da espiare – e senza fatica. Mentre oggi, oggi che siamo silenziosi e penitenti in questa solitudine da scontare, le vostre bocche sono piene di parole come resistenza, libertà, carne e cielo – ma false e menzognere, non belle né vibranti quali dovrebbero essere. Come svuotate dei loro significati, e messe lì, esposte, a fingere di rassicurare gli animi inermi dinnanzi all’inquietudine dell’isolamento. Ma sottrarsi al presente per scappare  nell’inconsistenza di un sogno o di un ricordo non dovrebbe essere il compito dell’arte: soprattutto se dettato dall’inerzia di chi non vuol fare i conti con la propria storia. La letteratura non crea mondi altri per sfuggire al proprio, bensì per amplificare le emozioni che in questa dimensione siamo troppo borghesi per affrontare. Si nutre di intensità, pullula di mostri, creature fantastiche, storie tragiche e finali struggenti; è fatta di addii, di partenze, di distacchi forzati. Asseconda il sentimento del tempo, non lo dissolve nella cecità del codardo che copre di maschere e veli la realtà.

Eppure c’è chi mente e chi tollera che siate voialtri a mentire. Non avete che malsicurezza e timore della paura, e credendo di proteggerci vi ostinate a raccontarci delle case con le lampade sui tavoli e i vasetti di fiori e i ritratti dei cari che non crolleranno mai. Ma noi invochiamo parole nude, tremori, sentimenti esposti e verità. Vogliamo leggere nelle piaghe di queste strade ardenti di cemento e trovarci dentro la desolazione dei nostri animi. Vogliamo imparare che una casa è fatta di mattoni e calce e può crollare da un momento all’altro. Comprendere il senso di una privazione; sapere che quando un amante sfiorerà i nostri corpi, tremeremo come la prima volta. Vogliamo che ci venga detto che ci sono cose da cui non si guarisce e che se anche passeranno gli anni non guariremo mai, che non saremo più gente tranquilla, che le strade e i bar affollati ci renderanno di pietra, che non sapremo più ballare se non dentro a una stanza vuota, che ci copriremo il viso con le mani quando le mascherine non serviranno più, che dimenticheremo come si guida, come si ordina da bere, come si viaggia, come si consola un amico che soffre.

Necessitiamo di un neorealismo dei sentimenti. Perché quando tutto sarà finito e tornati alla libertà non avremo più timore a parlare della solitudine, del silenzio e della paura scampata, queste parole non avranno più senso. Saranno inutili e vuote come oggi è inutile e vuoto parlare di libertà, carne e cielo. Saranno una vile menzogna come menzognero e vile è convincerci che andrà tutto bene: quando la gente muore, e tutto bene evidentemente non va. E allora i pochi che sapranno scrivere della bellezza dell’esitazione, del tremore di una mano che sfiora, dell’impaccio del primo passo stentato, loro sì, saranno poeti.

La mania di protagonismo contagia i primi cittadini


Il cabaret dei sindaci e governatori, dalle Alpi allo Stretto

di Grazia Enerina Pisano



In piena emergenza Coronavirus, il cabaret è stato inaugurato da Vincenzo De Luca, presidente della regione Campania che, con il suo slogan sui carabinieri con i lanciafiamme, dopo aver fatto breccia nel cuore degli italiani, ha conquistato perfino Naomi Campbell e le pagine del New York Times.


Il guanto della sfida non poteva non essere raccolto dai sindaci dell’intera penisola e così, in sole due settimane, il sindaco di Messina Cateno De Luca è riuscito a raggiungere gli studi Mediaset di Barbara D’Urso. Per lui, la strada del successo nazionale è stata inaugurata dal video comunale in cui gridava: “U babbiu vi accuì, intelligentoni deficienti; ve lo dico chiaramente, sappiate che domani vi becco, vi becco uno a uno” (voce del verbo babbiare, fare gli stupidi). Poi l’occasione di slancio, grazie alla caccia alla Renault 4 degli artisti di strada francesi diretti da Napoli ad Acitrezza (CT): i ragazzi senza fissa dimora, dopo quattro mesi in territorio italiano, durante la visita a Napoli, sono stati colti dall’emergenza Covid-19 e dalle nuove misure restrittive. Senza nessun’altra soluzione se non recarsi dagli unici contatti in grado di ospitarli per adempiere agli obblighi previsti dagli ultimi decreti, all’interno di una macchinina sgangherata, hanno percorso tutta la Salerno-Reggio Calabria diretti verso lo Stretto. Dopo posti di blocco, tamponi di verifica con esito negativo, con documenti in regola e certificato della protezione civile, sono riusciti a raggiungere la punta dello stivale, Villa San Giovanni. Qui l’inizio dell’inferno: a causa dell’opposizione agli sbarchi da parte del sindaco di Messina, i viaggiatori stremati sono rimasti sul molo per tre giorni e tre notti. Ed ecco l’apice della fama raggiunto grazie al programma di “informazione” gestito dalla D’Urso: in collegamento da Messina, noncurante delle leggi in materia di privacy, il primo cittadino sventola in diretta nazionale il dispaccio dell’autorità contenente nome, cognome, data di nascita, indirizzo di residenza dei passeggeri, targa e revisione dell’auto: il video in poche ore ha ottenuto 3000 condivisioni. Ma, alla fine, gli esuli sono riusciti comunque a raggiungere la casa degli amici in Sicilia, da cui, via video, hanno chiarito la propria posizione: data l’assenza di un altro luogo dove poter adempiere alla quarantena, considerata l’emergenza, dopo l’autorizzazione delle forze dell’ordine, il gruppo si appella all’umanità e solidarietà comune, nella speranza che l’emergenza Coronavirus si possa arrestare il prima possibile. Ormai vicini all’applauso finale, la tecnologia diventa l’asso nella manica per il sindaco della città dello Stretto: ed ecco i droni che ovunque riproducono la soave voce del primo cittadino “Dove c***o vai? Torna a casa. Vi becco uno a uno. No passio, no babbio. Calci in c**o: ecco il modo per far applicare le norme. Non si esce, questo è l’ordine del sindaco De Luca e basta!”.


La posta in gioco è troppo alta per non aderire alla gara, così tanti altri primi cittadini, da nord a sud, hanno deciso di fare la propria parte: è il caso del sindaco di Tursi (MT) Salvatore Cosma che minaccia: “Io l’unica cosa che posso fare è che ve pozz rump ‘u ‘mus, così andrà a finire” e del sindaco di Boves (CN) Maurizio Paoletti che dichiara di voler aumentare il numero di loculi per ospitare coloro che trasgrediscono il divieto di uscire: “Se il piano A, Avviso, non funziona, passiamo al piano B, Bara”.


E mentre in maniera professionale, per le vie della Capitale, la sindaca Virginia Raggi spiega i rischi del virus Covid-19 agli abitanti che imperterriti continuano a fare jogging nei parchi, e il sindaco di Bari Antonio Decaro invita i concittadini presenti nel lungomare a rispettare il decreto, il primo cittadino della città metropolitana di Cagliari Paolo Truzzu utilizza la strategia del terrore.


Infatti, nella giornata di ieri, lungo le strade della città sono apparsi i manifesti m 6×3 firmati dal Comune: “Quando hanno portato mia madre in ospedale, ho capito che dovevo rinunciare alla corsa”, “Quando mio figlio è stato contagiato, ho capito che dovevo rinunciare a quella spesa inutile”, “Quando hanno intubato mio padre ho ripensato a quella passeggiata che dovevo evitare” recitano. In Sardegna sono 442 i contagi, 318 i casi nella provincia di Sassari e 74 in quella di Cagliari. Mentre la città del sole si svuota, lasciando spazio alla natura e ai suoi delfini, il sindaco intima il “memento mori” per una popolazione che, fatta eccezione per casi patologici che non riescono a rispettare le norme, cerca di fare la propria parte restando a casa.


E così, in piena emergenza Coronavirus, mentre il governo cerca di vestire quell’abito istituzionale da tempo dimenticato, guidato da colui che ora potrebbe facilmente essere definito “l’uomo d’Italia” Giuseppe Conte, a livello locale comincia ad affermarsi la figura del sindaco-sceriffo, in una competizione a chi ha la voce più grossa e a chi la spara più grossa. Sindaci, esito di una politica che dal 1994 ha cambiato le sue vesti.


Una politica che, anziché elevare lo status dell’interlocutore attraverso politiche di educazione, istruzione e welfare, per parlare a tutti, ha preferito cambiare la propria voce, abbassando il livello dei messaggi, delle parole, dei sentimenti, in un’inarrestabile degradazione sfociata in urla, insulti e scoop.
Una politica sempre più popolare, o meglio popolana, travestita da fratello maggiore che, facilmente, dimentica il proprio ruolo di vate. Una politica figlia di una classe istituzionale alimentata dalla demagogia e dal populismo, affermatasi grazie al tono di voce più alto e al capro espiatorio più succulento: sia questo incarnato dai cinesi o dai lombardi o da tutti coloro che si trovano oltre lo Stretto.
Una politica quotidianamente nutrita da un nemico esterno sempre ben nitido e facilmente distinguibile: sia esso il terrone, sia esso Roma ladrona, sia esso il profugo. Una politica che, inesorabilmente, ha perso il proprio ruolo di guida.


Politica condannata a perdere anche sé stessa, in favore del palco sempre acceso dell’eterno cabaret.

Primo giorno di primavera

Semi ormai diventati fiori

di Grazia Enerina Pisano


Dalle lacrime di una madre raccolte da Don Luigi Ciotti (fondatore di Libera), 25 anni fa nacque la giornata dell’impegno: quella donna si chiamava Carmela, mamma di Antonio Montinaro, che non udiva mai pronunciare il nome di suo figlio, incluso insieme a tanti altri negli “uomini della scorta” di Giovanni Falcone, ragazzi che insieme al magistrato persero la vita nella strage di Capaci il 23 maggio 1992: Antonio (29 anni), Rocco Dicillo (30 anni) e Vito Schifani (27 anni). Così, dal 1995, il 21 marzo non è più soltanto il primo giorno di primavera ma giornata del ricordo di tanti semi, ormai diventati fiori. Il 1° marzo 2017, la Camera dei deputati ha ufficializzato l’esistenza della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”, dimenticando però l’aggettivo “innocenti”. Ricordo delle vittime innocenti di mafia: fiori che non hanno potuto conoscere questa primavera, elencati in una lista che ogni anno diventa sempre più lunga. Sono tante, sono troppe le vittime innocenti di mafia: sono circa 900 le persone di cui si conosce il nome; ma tante altre sono quelle occultate, sciolte, dissolte dalla cosiddetta “lupara bianca”. 

Ogni 21 marzo, in diverse città d’Italia, in una lunga marcia della pace, a suon di musica e canti, quelle vite continuano a camminare sulle nostre gambe: vite spezzate ma mai dimenticate. In questo primo giorno di primavera, bandiere colorate sventolano al cielo, i palloncini volano nell’immenso azzurro, le mani formicolano per il troppo applaudire, la voce manca per il troppo cantare, le gambe cedono per il troppo ballare, gli occhi bruciano per le troppe lacrime. Ma si deve continuare a camminare, a cantare, a resistere, nonostante tutto.

Erano fiori da recidere per garantire la sopravvivenza delle attività mafiose: linfa vitale inarrestabile che, ancora oggi, in giornate come questa, nonostante pandemie e crisi, ricordiamo.

Germogli mozzati come Carlo Guarino e suo figlio di 3 anni Vito Guarino, uccisi il 3 gennaio 1949 a Partinico (PA) da una banda di “banditi”; come Serafino Lascari (15 anni), Giuseppe di Maggio (13 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza la Fata (8 anni), caduti a colpi di mitra, insieme ad altri 27 feriti e una decina di morti, nella strage di Portella della Ginestra (PA) durante la manifestazione del 1 maggio del 1947, organizzata contro lo sfruttamento del latifondo; come Domenica Zucco, uccisa a soli 3 anni, il 3 ottobre 1951, in un agguato al padre a San Martino di Taurianova (RC); come i fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro di 10 e 19 anni, vittime della strage di Godrano (PA); come Caterina Nencioni di soli 50 giorni di vita, Nadia Nencioni di 9 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 e Angela Fiume di 36, morti nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze, a seguito dell’esplosione di un Fiat Fiorino imbottita di esplosivo; come Angelica Pirtoli, bambina di 2 anni, atrocemente uccisa insieme alla madre il 20 maggio 1991 a Lecce, su comando della moglie di un boss con cui la mamma aveva una relazione; come Fabio De Pandi, ucciso a 11 anni, il 21 luglio 1991, a Napoli, in uno scontro tra clan. Eccola la mafia che protegge le donne e i bambini!

Vite mozzate poiché nel posto sbagliato al momento sbagliato, come Concetta Matarazzo, uccisa a 37 anni, travolta dall’auto di due pregiudicati a Giugliano (NA) il 12 ottobre 1996, giovane donna che nulla aveva a che fare con la guerra tra clan della camorra; come Davide Sannino, ucciso a 19 anni, il 19 luglio 1996 a Massa di Somma (NA), perché aveva osato guardare con aria di sfida il rapinatore (in nome di tre orologi di basso valore); come Domenico Bruno, ucciso il 22 marzo 1991 a Petilia Policastro (KR), per aver assistito ad una rapina: un testimone scomodo; come Nicholas Green, ucciso a Messina il 1 ottobre 1994, quando la macchina su cui viaggiava fu scambiata per quella di un gioielliere da rapinare. Persone comuni che nulla avevano a che fare con la mafia, che vivevano la propria vita nell’esercizio della libertà individuale e che hanno avuto la sfortuna di vedere o ascoltare qualcosa di troppo.

Cittadini responsabili uccisi perché capaci di svolgere al meglio il proprio dovere, come i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ucciso nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, in cui persero la vita Agostino Catalano (43 anni), Emanuela Loi (24 anni), Vincenzo Li Muli (22 anni), Walter Eddi Cosina (31 anni) e Claudio Traina (27 anni); come il generale Carlo Alberto dalla Chiesa nominato prefetto di Palermo per combattere la mafia e ucciso il 3 settembre 1982; come Don Pino Puglisi, assassinato il 15 settembre 1993 per aver lottato contro la mafia nel quartiere Brancaccio (PA); come Pio La Torre, deputato del PCI e sindacalista CGIL, ucciso il 30 aprile 1982, impegnato fin da giovane nella lotta a favore dei braccianti: fu l’ispiratore della legge che introdusse il reato di associazione mafiosa (legge Rognoni-La Torre) e la relativa confisca dei beni; come Placido Rizzotto, assassinato il 10 marzo 1948, per fermare la ribellione dei contadini da lui organizzata contro l’oppressione mafiosa nel latifondo; come Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980, presidente della regione Sicilia nel 1978: tentò di sanare la gestione dei contributi agricoli regionali. Funzionari di uno Stato cieco, persone con la schiena troppo dritta per poter essere piegate; ma infine spezzate nel vuoto delle istituzioni.

Giornalisti che ebbero il coraggio di denunciare e raccontare la verità: come Giuseppe Fava ucciso il 5 gennaio 1984 a Catania, autore di inchieste sugli affari politici ed economici che imbrigliavano la Sicilia; come Ilaria Alpi, inviata del Tg3, uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, a causa delle sue indagini sul traffico di armi e rifiuti tossici illegali in cui erano coinvolti anche l’esercito e alcune istituzioni italiane; come Giancarlo Siani che, a seguito dell’attivismo nei movimenti anticamorra e delle denunce delle attività criminali e dell’infiltrazione politica della camorra, fu ucciso a Napoli, il 23 settembre 1985, a soli 26 anni.

I nomi alla fine di quel lungo, lunghissimo elenco, appartengono agli ultimi, a quelli dimenticati perfino da Dio: sono i braccianti dei campi di pomodori delle sconfinate pianure pugliesi, vittime perfette del caporalato. Sono i migranti morti il 6 agosto 2018, stipati su un furgoncino capovolto al ritorno dai campi di Foggia, dopo una giornata di dodici ore di lavoro, per €1,50/l’ora: sono Amadou Balde di 20 anni, Aladjie Ceesay di 23 anni, Moussa Kande di 27, Ali Dembele di 30, Lhassan Goultaine di 39, Anane Kwase di 34, Toure di 21, Lahcen Haddouch di 41, Awuku Joseph di 24, Ebere Ujunwa di 21, Bafoudi Camarra di 22, Alagie Ceesay di 24, Alasanna Darboe di 28, Eric Kwarteng di 32, Romanus Mbeke di 28 e Djoumana Djire di 36 anni.

Sono tante, troppe le storie da raccontare.

Si leggono anche i nomi di spighe al vento che hanno avuto l’ardire di cambiare la propria condizione: è il caso di Silvana Foglietta che dopo la morte del marito (boss della Sacra Corona Unita) decise di collaborare con la giustizia, ma fu uccisa il 7 febbraio 1991 e il suo corpo mai ritrovato.

O la storia di Giuseppe Impastato, per noi amici “Peppino”, nato a Cinisi da Felicia (vera donna coraggiosa del sud) e dal mafioso Luigi Impastato, legato in affari con il triumviro Tano Badalamenti. Peppino ebbe il coraggio di scegliere da che parte stare, non quella della famiglia di sangue, non quella del traffico di eroina che alla fine degli anni ’80 diventava il vero business mondiale, non quella degli appalti pubblici truccati o degli accordi politico-mafiosi nelle città di “mafiopoli” che portarono al sacco di Palermo o alla costruzione dell’aeroporto Punta Raisi. Peppino decise di resistere e dalla stazione Radio Aut gridava a tutti che la mafia è una montagna di merda. Una montagna talmente alta che lo trasformò in uno dei più grandi suicidi della storia: ma Giuseppe Impastato non era un suicida, Peppino fu fatto saltare in aria sui binari della ferrovia nei pressi di Cinisi, nella notte del 9 maggio del 1978, su ordine di Gaetano Badalamenti (riconosciuto colpevole solo nel 1997). Purtroppo, in quella notte buia dello Stato italiano, moriva anche l’onorevole Aldo Moro e nessuno pensava al piccolo povero “suicida” comunista figlio di mafioso della cittadina di Cinisi.

Ma tutti, Peppino, le vittime innocenti di cui si conosce l’identità e le tante altre scomparse nell’assenza dello Stato, continuano a vivere, ricordandoci sempre da che parte stare: perché il confine tra bene e male è netto e oggi nessuno può permettersi di dire “Io non lo sapevo”.