La mania di protagonismo contagia i primi cittadini


Il cabaret dei sindaci e governatori, dalle Alpi allo Stretto

di Grazia Enerina Pisano



In piena emergenza Coronavirus, il cabaret è stato inaugurato da Vincenzo De Luca, presidente della regione Campania che, con il suo slogan sui carabinieri con i lanciafiamme, dopo aver fatto breccia nel cuore degli italiani, ha conquistato perfino Naomi Campbell e le pagine del New York Times.


Il guanto della sfida non poteva non essere raccolto dai sindaci dell’intera penisola e così, in sole due settimane, il sindaco di Messina Cateno De Luca è riuscito a raggiungere gli studi Mediaset di Barbara D’Urso. Per lui, la strada del successo nazionale è stata inaugurata dal video comunale in cui gridava: “U babbiu vi accuì, intelligentoni deficienti; ve lo dico chiaramente, sappiate che domani vi becco, vi becco uno a uno” (voce del verbo babbiare, fare gli stupidi). Poi l’occasione di slancio, grazie alla caccia alla Renault 4 degli artisti di strada francesi diretti da Napoli ad Acitrezza (CT): i ragazzi senza fissa dimora, dopo quattro mesi in territorio italiano, durante la visita a Napoli, sono stati colti dall’emergenza Covid-19 e dalle nuove misure restrittive. Senza nessun’altra soluzione se non recarsi dagli unici contatti in grado di ospitarli per adempiere agli obblighi previsti dagli ultimi decreti, all’interno di una macchinina sgangherata, hanno percorso tutta la Salerno-Reggio Calabria diretti verso lo Stretto. Dopo posti di blocco, tamponi di verifica con esito negativo, con documenti in regola e certificato della protezione civile, sono riusciti a raggiungere la punta dello stivale, Villa San Giovanni. Qui l’inizio dell’inferno: a causa dell’opposizione agli sbarchi da parte del sindaco di Messina, i viaggiatori stremati sono rimasti sul molo per tre giorni e tre notti. Ed ecco l’apice della fama raggiunto grazie al programma di “informazione” gestito dalla D’Urso: in collegamento da Messina, noncurante delle leggi in materia di privacy, il primo cittadino sventola in diretta nazionale il dispaccio dell’autorità contenente nome, cognome, data di nascita, indirizzo di residenza dei passeggeri, targa e revisione dell’auto: il video in poche ore ha ottenuto 3000 condivisioni. Ma, alla fine, gli esuli sono riusciti comunque a raggiungere la casa degli amici in Sicilia, da cui, via video, hanno chiarito la propria posizione: data l’assenza di un altro luogo dove poter adempiere alla quarantena, considerata l’emergenza, dopo l’autorizzazione delle forze dell’ordine, il gruppo si appella all’umanità e solidarietà comune, nella speranza che l’emergenza Coronavirus si possa arrestare il prima possibile. Ormai vicini all’applauso finale, la tecnologia diventa l’asso nella manica per il sindaco della città dello Stretto: ed ecco i droni che ovunque riproducono la soave voce del primo cittadino “Dove c***o vai? Torna a casa. Vi becco uno a uno. No passio, no babbio. Calci in c**o: ecco il modo per far applicare le norme. Non si esce, questo è l’ordine del sindaco De Luca e basta!”.


La posta in gioco è troppo alta per non aderire alla gara, così tanti altri primi cittadini, da nord a sud, hanno deciso di fare la propria parte: è il caso del sindaco di Tursi (MT) Salvatore Cosma che minaccia: “Io l’unica cosa che posso fare è che ve pozz rump ‘u ‘mus, così andrà a finire” e del sindaco di Boves (CN) Maurizio Paoletti che dichiara di voler aumentare il numero di loculi per ospitare coloro che trasgrediscono il divieto di uscire: “Se il piano A, Avviso, non funziona, passiamo al piano B, Bara”.


E mentre in maniera professionale, per le vie della Capitale, la sindaca Virginia Raggi spiega i rischi del virus Covid-19 agli abitanti che imperterriti continuano a fare jogging nei parchi, e il sindaco di Bari Antonio Decaro invita i concittadini presenti nel lungomare a rispettare il decreto, il primo cittadino della città metropolitana di Cagliari Paolo Truzzu utilizza la strategia del terrore.


Infatti, nella giornata di ieri, lungo le strade della città sono apparsi i manifesti m 6×3 firmati dal Comune: “Quando hanno portato mia madre in ospedale, ho capito che dovevo rinunciare alla corsa”, “Quando mio figlio è stato contagiato, ho capito che dovevo rinunciare a quella spesa inutile”, “Quando hanno intubato mio padre ho ripensato a quella passeggiata che dovevo evitare” recitano. In Sardegna sono 442 i contagi, 318 i casi nella provincia di Sassari e 74 in quella di Cagliari. Mentre la città del sole si svuota, lasciando spazio alla natura e ai suoi delfini, il sindaco intima il “memento mori” per una popolazione che, fatta eccezione per casi patologici che non riescono a rispettare le norme, cerca di fare la propria parte restando a casa.


E così, in piena emergenza Coronavirus, mentre il governo cerca di vestire quell’abito istituzionale da tempo dimenticato, guidato da colui che ora potrebbe facilmente essere definito “l’uomo d’Italia” Giuseppe Conte, a livello locale comincia ad affermarsi la figura del sindaco-sceriffo, in una competizione a chi ha la voce più grossa e a chi la spara più grossa. Sindaci, esito di una politica che dal 1994 ha cambiato le sue vesti.


Una politica che, anziché elevare lo status dell’interlocutore attraverso politiche di educazione, istruzione e welfare, per parlare a tutti, ha preferito cambiare la propria voce, abbassando il livello dei messaggi, delle parole, dei sentimenti, in un’inarrestabile degradazione sfociata in urla, insulti e scoop.
Una politica sempre più popolare, o meglio popolana, travestita da fratello maggiore che, facilmente, dimentica il proprio ruolo di vate. Una politica figlia di una classe istituzionale alimentata dalla demagogia e dal populismo, affermatasi grazie al tono di voce più alto e al capro espiatorio più succulento: sia questo incarnato dai cinesi o dai lombardi o da tutti coloro che si trovano oltre lo Stretto.
Una politica quotidianamente nutrita da un nemico esterno sempre ben nitido e facilmente distinguibile: sia esso il terrone, sia esso Roma ladrona, sia esso il profugo. Una politica che, inesorabilmente, ha perso il proprio ruolo di guida.


Politica condannata a perdere anche sé stessa, in favore del palco sempre acceso dell’eterno cabaret.

Primo giorno di primavera

Semi ormai diventati fiori

di Grazia Enerina Pisano


Dalle lacrime di una madre raccolte da Don Luigi Ciotti (fondatore di Libera), 25 anni fa nacque la giornata dell’impegno: quella donna si chiamava Carmela, mamma di Antonio Montinaro, che non udiva mai pronunciare il nome di suo figlio, incluso insieme a tanti altri negli “uomini della scorta” di Giovanni Falcone, ragazzi che insieme al magistrato persero la vita nella strage di Capaci il 23 maggio 1992: Antonio (29 anni), Rocco Dicillo (30 anni) e Vito Schifani (27 anni). Così, dal 1995, il 21 marzo non è più soltanto il primo giorno di primavera ma giornata del ricordo di tanti semi, ormai diventati fiori. Il 1° marzo 2017, la Camera dei deputati ha ufficializzato l’esistenza della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”, dimenticando però l’aggettivo “innocenti”. Ricordo delle vittime innocenti di mafia: fiori che non hanno potuto conoscere questa primavera, elencati in una lista che ogni anno diventa sempre più lunga. Sono tante, sono troppe le vittime innocenti di mafia: sono circa 900 le persone di cui si conosce il nome; ma tante altre sono quelle occultate, sciolte, dissolte dalla cosiddetta “lupara bianca”. 

Ogni 21 marzo, in diverse città d’Italia, in una lunga marcia della pace, a suon di musica e canti, quelle vite continuano a camminare sulle nostre gambe: vite spezzate ma mai dimenticate. In questo primo giorno di primavera, bandiere colorate sventolano al cielo, i palloncini volano nell’immenso azzurro, le mani formicolano per il troppo applaudire, la voce manca per il troppo cantare, le gambe cedono per il troppo ballare, gli occhi bruciano per le troppe lacrime. Ma si deve continuare a camminare, a cantare, a resistere, nonostante tutto.

Erano fiori da recidere per garantire la sopravvivenza delle attività mafiose: linfa vitale inarrestabile che, ancora oggi, in giornate come questa, nonostante pandemie e crisi, ricordiamo.

Germogli mozzati come Carlo Guarino e suo figlio di 3 anni Vito Guarino, uccisi il 3 gennaio 1949 a Partinico (PA) da una banda di “banditi”; come Serafino Lascari (15 anni), Giuseppe di Maggio (13 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza la Fata (8 anni), caduti a colpi di mitra, insieme ad altri 27 feriti e una decina di morti, nella strage di Portella della Ginestra (PA) durante la manifestazione del 1 maggio del 1947, organizzata contro lo sfruttamento del latifondo; come Domenica Zucco, uccisa a soli 3 anni, il 3 ottobre 1951, in un agguato al padre a San Martino di Taurianova (RC); come i fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro di 10 e 19 anni, vittime della strage di Godrano (PA); come Caterina Nencioni di soli 50 giorni di vita, Nadia Nencioni di 9 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 e Angela Fiume di 36, morti nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze, a seguito dell’esplosione di un Fiat Fiorino imbottita di esplosivo; come Angelica Pirtoli, bambina di 2 anni, atrocemente uccisa insieme alla madre il 20 maggio 1991 a Lecce, su comando della moglie di un boss con cui la mamma aveva una relazione; come Fabio De Pandi, ucciso a 11 anni, il 21 luglio 1991, a Napoli, in uno scontro tra clan. Eccola la mafia che protegge le donne e i bambini!

Vite mozzate poiché nel posto sbagliato al momento sbagliato, come Concetta Matarazzo, uccisa a 37 anni, travolta dall’auto di due pregiudicati a Giugliano (NA) il 12 ottobre 1996, giovane donna che nulla aveva a che fare con la guerra tra clan della camorra; come Davide Sannino, ucciso a 19 anni, il 19 luglio 1996 a Massa di Somma (NA), perché aveva osato guardare con aria di sfida il rapinatore (in nome di tre orologi di basso valore); come Domenico Bruno, ucciso il 22 marzo 1991 a Petilia Policastro (KR), per aver assistito ad una rapina: un testimone scomodo; come Nicholas Green, ucciso a Messina il 1 ottobre 1994, quando la macchina su cui viaggiava fu scambiata per quella di un gioielliere da rapinare. Persone comuni che nulla avevano a che fare con la mafia, che vivevano la propria vita nell’esercizio della libertà individuale e che hanno avuto la sfortuna di vedere o ascoltare qualcosa di troppo.

Cittadini responsabili uccisi perché capaci di svolgere al meglio il proprio dovere, come i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ucciso nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, in cui persero la vita Agostino Catalano (43 anni), Emanuela Loi (24 anni), Vincenzo Li Muli (22 anni), Walter Eddi Cosina (31 anni) e Claudio Traina (27 anni); come il generale Carlo Alberto dalla Chiesa nominato prefetto di Palermo per combattere la mafia e ucciso il 3 settembre 1982; come Don Pino Puglisi, assassinato il 15 settembre 1993 per aver lottato contro la mafia nel quartiere Brancaccio (PA); come Pio La Torre, deputato del PCI e sindacalista CGIL, ucciso il 30 aprile 1982, impegnato fin da giovane nella lotta a favore dei braccianti: fu l’ispiratore della legge che introdusse il reato di associazione mafiosa (legge Rognoni-La Torre) e la relativa confisca dei beni; come Placido Rizzotto, assassinato il 10 marzo 1948, per fermare la ribellione dei contadini da lui organizzata contro l’oppressione mafiosa nel latifondo; come Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980, presidente della regione Sicilia nel 1978: tentò di sanare la gestione dei contributi agricoli regionali. Funzionari di uno Stato cieco, persone con la schiena troppo dritta per poter essere piegate; ma infine spezzate nel vuoto delle istituzioni.

Giornalisti che ebbero il coraggio di denunciare e raccontare la verità: come Giuseppe Fava ucciso il 5 gennaio 1984 a Catania, autore di inchieste sugli affari politici ed economici che imbrigliavano la Sicilia; come Ilaria Alpi, inviata del Tg3, uccisa il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, a causa delle sue indagini sul traffico di armi e rifiuti tossici illegali in cui erano coinvolti anche l’esercito e alcune istituzioni italiane; come Giancarlo Siani che, a seguito dell’attivismo nei movimenti anticamorra e delle denunce delle attività criminali e dell’infiltrazione politica della camorra, fu ucciso a Napoli, il 23 settembre 1985, a soli 26 anni.

I nomi alla fine di quel lungo, lunghissimo elenco, appartengono agli ultimi, a quelli dimenticati perfino da Dio: sono i braccianti dei campi di pomodori delle sconfinate pianure pugliesi, vittime perfette del caporalato. Sono i migranti morti il 6 agosto 2018, stipati su un furgoncino capovolto al ritorno dai campi di Foggia, dopo una giornata di dodici ore di lavoro, per €1,50/l’ora: sono Amadou Balde di 20 anni, Aladjie Ceesay di 23 anni, Moussa Kande di 27, Ali Dembele di 30, Lhassan Goultaine di 39, Anane Kwase di 34, Toure di 21, Lahcen Haddouch di 41, Awuku Joseph di 24, Ebere Ujunwa di 21, Bafoudi Camarra di 22, Alagie Ceesay di 24, Alasanna Darboe di 28, Eric Kwarteng di 32, Romanus Mbeke di 28 e Djoumana Djire di 36 anni.

Sono tante, troppe le storie da raccontare.

Si leggono anche i nomi di spighe al vento che hanno avuto l’ardire di cambiare la propria condizione: è il caso di Silvana Foglietta che dopo la morte del marito (boss della Sacra Corona Unita) decise di collaborare con la giustizia, ma fu uccisa il 7 febbraio 1991 e il suo corpo mai ritrovato.

O la storia di Giuseppe Impastato, per noi amici “Peppino”, nato a Cinisi da Felicia (vera donna coraggiosa del sud) e dal mafioso Luigi Impastato, legato in affari con il triumviro Tano Badalamenti. Peppino ebbe il coraggio di scegliere da che parte stare, non quella della famiglia di sangue, non quella del traffico di eroina che alla fine degli anni ’80 diventava il vero business mondiale, non quella degli appalti pubblici truccati o degli accordi politico-mafiosi nelle città di “mafiopoli” che portarono al sacco di Palermo o alla costruzione dell’aeroporto Punta Raisi. Peppino decise di resistere e dalla stazione Radio Aut gridava a tutti che la mafia è una montagna di merda. Una montagna talmente alta che lo trasformò in uno dei più grandi suicidi della storia: ma Giuseppe Impastato non era un suicida, Peppino fu fatto saltare in aria sui binari della ferrovia nei pressi di Cinisi, nella notte del 9 maggio del 1978, su ordine di Gaetano Badalamenti (riconosciuto colpevole solo nel 1997). Purtroppo, in quella notte buia dello Stato italiano, moriva anche l’onorevole Aldo Moro e nessuno pensava al piccolo povero “suicida” comunista figlio di mafioso della cittadina di Cinisi.

Ma tutti, Peppino, le vittime innocenti di cui si conosce l’identità e le tante altre scomparse nell’assenza dello Stato, continuano a vivere, ricordandoci sempre da che parte stare: perché il confine tra bene e male è netto e oggi nessuno può permettersi di dire “Io non lo sapevo”.

Noi, superstiti

Sulla gioia di vivere e sulla vergogna di non essere morti

di Valeria Rando


L’agosto del ’44 e le cronache dell’apertura di Parigi: fu la liberazione. Tutto era finito. I bambini cantavano versi sfottenti per i boulevard, accogliendo i soldati americani vestiti in kaki, alti, ridenti, presi a masticare chewing-gum, baciare ragazze esuberanti, attardarsi per le vie dopo la chiusura dei caffè – e ch’eran lì per testimoniare che si potevano di nuovo, e finalmente, attraversare i mari. Tutto era finito, tutto incominciava. Erano l’incarnazione stessa della libertà, quei soldati: la nostra, e – ne eravamo convinti – quella che avrebbero portato in giro nel mondo. E i parigini instancabili riaprivano le porte della loro città liberata ad intellettuali dissidenti, confinati, esiliati: stringendosi mani entusiaste, scambiandosi sorrisi commossi, abbandonandosi ad un’ebbrezza di fratellanza in cui la sorte di ciascuno, lo si percepiva, era legata a quella di tutti – come non era mai capitato, neanche prima della guerra. La libertà, adesso, l’oppressione, la felicità e la sofferenza di tutti erano cose che li riguardavano direttamente. In prima persona e nessuno escluso.

Ma aprirsi alla storia non significò solo cancellare le sconfitte passate – e né la vittoria né l’avvenire che essa schiudeva potevano dirsi ormai appartenute pienamente alla Francia. Si percepiva il tentativo di afferrare un che di sfuggente, di non ancora conquistato, che in parte strideva con la fame di pienezza che esalta un popolo emancipato. C’era qualcosa che alla Parigi occupata e chiusa nel suo collaborazionismo era sfuggito, e con cui ora, libera, si trovava a fare i conti: la Seconda guerra mondiale, quella combattuta, quella degli altri.

«Questi incontri mi rivelavano una storia che era la mia e che non conoscevo. Aron ci raccontò tanti particolari dei bombardamenti di Londra, del sangue freddo degli inglesi, della loro sopportazione; quelle V1 rosse nel cielo nero che avevo visto passare su Neuilly-sous-Clermont, a Londra diventavano un fischio invisibile, un’esplosione e dei morti. Mi prestò la collezione di France Libre e potei decifrarvi la guerra dall’altro polo, non più vista da Parigi ma da Londra. Avevo vissuto come una reclusa; mi si riapriva il mondo. Un mondo devastato. Subito dopo la liberazione furono scoperte le stanze di tortura della Gestapo e vennero alla luce dei carnai. Bianca mi parlò del Vercors; mi raccontò dei giorni che suo padre e suo marito avevano passato nascosti in una grotta; i giornali erano pieni di particolari sui massacri, sulle esecuzioni di ostaggi; vennero pubblicati dei pezzi sulla distruzione di Varsavia. E non osavamo pensare a quello che stava succedendo nei campi di concentramento, ora che i tedeschi sapevano che per loro era finita. Questo passato che ci veniva rivelato così bruscamente mi faceva ripiombare nell’orrore; la gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti.»

(da Simone de Beauvoir, La forza delle cose)

La gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti. Al pensiero di ciò che si erano persi, costretti nell’egoismo delle proprie sofferenze, i francesi occupati e ormai liberati scendevano a patti con la storia: e di essa scoprivano le atrocità, le storture, i morbi. Ne venivano toccati come accade con la ventata potente che soffia dopo ch’è passato un treno: inaspettatamente e di sorpresa.

E così come allora l’occupazione nazista di Parigi sembrò niente se paragonata al destino degli ebrei nei campi del Terzo Reich, allo stesso modo oggi, in Occidente, attraversiamo una crisi la cui conclusione ci farà vergognare di averla scampata, e di esserne sopravvissuti. Corrosi dai sensi di colpa per non aver dedicato un pensiero, un titolo di giornale o un canto dal balcone alla bambina di sei anni arsa viva nell’incendio che ha annerito il campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo. Un’altra, innocente vittima d’un contagio di nome guerra civile che non lascia scampo neppure ai più forti, neppure ai bambini. Perché in guerra non c’è casa in cui si possa restare né luogo ove sia concesso cantare: ma solo polvere, granate e centinaia di migliaia di morti.

Riuscite a pensarci? Come se il virus, invece che fuori di casa, dilagasse entro le mura della vostra dimora: nel cibo che mangiate, nei vestiti che indossate distratti. Come se uscisse dagli armadi, sgusciasse fuori dai cassetti, o da sotto ai letti, quando è notte e non riuscite a dormire. Come se le vostre madri diventassero matrigne, e despoti i vostri padri: e i vostri fratelli vi calunniassero, vi denunciassero, vi tradissero, e vi lasciassero soli. Come se il vicino dirimpetto promettesse di offrirvi rifugio e quiete per poi trattenervi come ostaggi, perseguitarvi, torturarvi, vendervi schiavi, utilizzarvi come strumento di minaccia in uno stato di perenne guerra di deterrenza. Come se da un giorno all’altro vi svelasse una porticina segreta, una via di fuga, una finestra affacciata su di un sogno chiamato Europa: e voi in massa, disperati, tentaste di fluirvi tutti insieme, traverso quella provvidenziale via di salvezza. Per trovarvi, alla frontiera, sputi e manganellate. Il sogno che speravate ha la sembianza dei vostri fratelli traditori, dei vostri padri tiranni, dei ventri aridi e inospitali delle matrigne che avete lasciate. La democrazia che speravate vi brucia le scuole, vi lascia senz’acqua, vi costringe a dormire all’addiaccio, nel freddo di febbraio. Ammazza i vostri bambini e vi rimprovera di non averli protetti; stupra le vostre mogli e vi accusa di non averle sapute amare. Vi succhia quel po’ di sangue che vi è rimasto e, se avete denaro, vi spinge a tornare indietro, verso il confine turco, un po’ più vicini all’Afghanistan, alla Siria, tra le esplosioni e i gas chimici: e voi lo fate, perché tanto cosa cambia, tra morire di freddo, annegati e bruciati o morire sotto una granata, che almeno possiate morire a casa – o in quel che ne è rimasto.

E tanto più grave è la morte di una bambina ch’era scampata alla guerra afghana, alle bombe e ai talebani: che ce l’aveva quasi fatta, e aveva raggiunto l’Europa. Anche se il campo profughi di Moria, progettato per contenere meno di tremila persona, ne ospita di fatto quasi ventimila – e in condizioni disastrose. Dove spegnersi per una pandemia è solo uno dei punti da aggiungere alla lista dei fattori per cui morire. E dove la malnutrizione, le condizioni igieniche, le violenze inaudite a cui troppe persone sono abituate – e alla cui narrazione ci andiamo abituando anche noi – uccidono senza sosta ormai da anni.

Chiusi nelle nostre case, isolati e al sicuro, amiamo rifugiarci nei racconti della liberazione; nella fine della guerra; nella cacciata del nemico invasore. Ci addormentiamo a sera, mai del tutto stanchi, progettando il dopo. Quando tutto sarà finito, ci chiediamo, chissà come ci ritroveremo: andremo a ballare, viaggeremo oltreconfine, avanzeremo senza freni nella sicura rincorsa delle nostre ambizioni. Quando tutto sarà finito, quando tutto comincerà di nuovo, noi, superstiti – lo sappiamo – torneremo di certo a stringerci: commossi. Ma con la vaga sensazione di non poterla afferrare mai del tutto, questa tanto agognata libertà.

Ultimo canto di un profugo

Cronache di migrazioni dall’isola di Lesbo: la Turchia spalanca le frontiere ai rifugiati siriani e gli sbarchi sulle porte greche dell’Europa diventano ingestibili

di Valeria Rando


Nella mia memoria di adolescente, l’isola di Lesbo si è sempre tinta dei toni tragici legati alla morte di Saffo. Ritratta ai margini di una scogliera, in un paesaggio notturno rischiarato dai raggi di luna, mi è sempre piaciuto immaginarla serena, ferma nell’atto di gettarsi nel buio cupo del mare sottostante. La disperazione, del resto, quella più acuta che accompagna gli ultimi istanti di una vita sofferta – anche se immersa nel mito –, l’ho sempre saputa immobile, indifferente: non burrascosa, e mai urlante. Immersa in una cornice romantica, col mare piatto e il vento tiepido: quello di un banale giorno di marzo in cui lasciarsi morire.

Anche se a chi muore non è concesso di allietarsi del mare calmo della Grecia: non delle pareti montuose, non delle sue valli profonde; delle sponde dei fiumi, delle onde che lievi lambiscono le rive sassose, del raggio pudico della luna primaverile – o del sorgere timido di Venere, quando cala il buio. Nessun dolce spettacolo rallegra chi è disperato: e non c’è pianto o grido di dolore che possa competere col silenzio d’un corpo a cui la vita è stata strappata troppo prematuramente.

Sulle sponde di Lesbo giace da poche ore la salma di un bambino di quattro anni appena, siriano, in fuga senza colpe da un Paese che pare in una guerra perenne – o che almeno, in guerra, c’era da prima che lui venisse al mondo. È morto annegato su un barcone che s’illudeva potesse trarlo in salvo verso la tanto bramata Europa, dopo che l’inasprirsi dei conflitti nel nord della Siria e la passività con cui l’Occidente ha assistito agli scontri han portato il presidente turco Erdoğan ad aprire le frontiere ai profughi siriani rifugiati nel Paese. Dopo quattro anni dall’accordo dell’Unione Europea per chiudere la rotta migratoria dell’Egeo, si sta tragicamente compiendo il destino che in molti temevano: quello di un ricatto crudele cucito sulla pelle dei migranti. Utilizzandone le speranze e i sogni di riscatto come arma per ricattare l’Europa, al nuovo sultano di Ankara è bastato affermare che la polizia di frontiera non ne avrebbe frenati i tentativi di fuga per gettare il mondo in stato di crisi. E per convincere i Paesi europei a prendere delle misure drastiche per frenare il tanto temuto rischio di invasione.

Così, mentre le partenze si sono moltiplicate massicciamente, e in un solo giorno più di 1300 persone sono sbarcate sulle già disagevoli isole greche, l’insofferenza di chi guarda le guerre al di qua del confine di sicurezza veste i panni del neonazismo e aggredisce chiunque tenti di dare un aiuto agli sfollati in fuga. Sono i gruppi di estrema destra di Alba Dorata, la lega popolare nazionalista nata negli anni Novanta e tristemente nota per i massacri contro i musulmani bosniaci nella spietata guerra jugoslava. Ad oggi, blocchi stradali impediscono ai profughi di raggiungere il centro di detenzione principale, a Moria, costringendoli a dormire all’addiaccio, al freddo, buttati in tendopoli provvisorie – o al peggio sulla battigia. E non mancano le repressioni minatorie agli attivisti e ai giornalisti, vittime del tipo di violenze che si confarebbero più ad un teatro di guerra che ad un’isola nota per essere stata per anni pacifico rifugio e ponte di salvezza. E che oggi par quasi essersi trasformata in una prigione a cielo aperto che non smette di bruciare. Campi profughi dati alle fiamme, volontari intimidati, presi a sassate, migranti che hanno imparato a muoversi poco, e sempre in gruppo, ignorati da uno spietato senso comune che trasforma in questione politica una tragedia umanitaria senza tempo.

E dove le vittime, infondo, son sempre le stesse: gli ultimi, sfruttati, massacrati, perenni fuggitivi. Le anime nate per essere esiliate, gli ospiti volgari e sgraditi, gli amanti disprezzati, a cui in vita non sorrisero le rive soleggiate né le albe spalancate sul cielo. Sono parole che Leopardi, circa due secoli fa, mise in bocca a Saffo nel suo celebre Ultimo canto, e che mai mi son parse così attuali. Sono i tormenti disperati delle giovani anime morenti tradotti nella lucidità di un verso piano, di un mare calmo: che è la più atroce forma di sofferenza. A loro non è concesso il saluto del canto degli uccelli né il mormorio dei faggi: e persino il ruscello, così solito a destreggiarsi all’ombra dei salici, ritrae sdegnoso le sue acque al contatto coi loro corpi, e li rigetta, sputandoli sulla riva e tornando a serpeggiare. Ed è inutile chiedersi di quale colpa, di quale indicibile misfatto si macchiarono prima di nascere, tali che il cielo e la sorte fossero così ostili. O in che cosa peccarono da bambini, quando la vita non conosce ancora il peccato, perché il caso avvolgesse il filo rugginoso delle loro vite privandoli del fiorire della gioventù. Non v’è risposta. Sono una prole dimenticata, nata per piangere; e la ragione di ciò è nota soltanto a dio: ammesso che vi sia.

E morremo, moriremo. Il velo indegno a terra sparto, gettati a terra questi corpi indegni, rifuggirà l’ignudo animo a Dite, le loro anime, nude, fuggiranno nel regno dei morti: e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de’ casi. E solo così sarà riparato il crudele errore di questo cieco destino.

Sì, moriranno. E lentamente morirà anche quest’Europa inerte, indifferente, preoccupata del destino dei profughi siriani solo quando questo minaccia di incidere sul suo. E che non pensa alle bombe dei russi su Idlib; agli attacchi di Assad che dal 2015 distruggono le scuole e gli ospedali del suo stesso popolo; alle repressioni punitive dei turchi per ciascuno dei loro soldati ammazzati, ma contro i civili; al silenzio dei media, alle violenze sui giornalisti che tentano di urlare la verità, al soffocamento delle voci imberbi dei dissidenti. Muore lentamente l’Europa che aspetta la morte di un bimbo di quattro anni per indignarsi: e per ricordare che un corpicino così, esanime su una riva d’invano sperata salvezza, l’aveva già visto, e già se n’era indignata.

Era il 2015, e lui fu noto al mondo come Alan Kurdi. E oggi, mentre il ricordo sbiadito di quella magliettina rossa stesa prona sul bagnasciuga, di quel volto pulito insozzato dalla sabbia, torna d’improvviso a farsi nitido, a disturbarci i pensieri, vien da pensare a chissà quante altre inutili morti dovranno sconvolgerci – o passarci, distratte, accanto – prima che anche a questo bimbo di Lesbo venga assegnato un nome: che diventi un simbolo: che venga presto, anche lui, crudelmente dimenticato.