Noi, superstiti

Sulla gioia di vivere e sulla vergogna di non essere morti

di Valeria Rando


L’agosto del ’44 e le cronache dell’apertura di Parigi: fu la liberazione. Tutto era finito. I bambini cantavano versi sfottenti per i boulevard, accogliendo i soldati americani vestiti in kaki, alti, ridenti, presi a masticare chewing-gum, baciare ragazze esuberanti, attardarsi per le vie dopo la chiusura dei caffè – e ch’eran lì per testimoniare che si potevano di nuovo, e finalmente, attraversare i mari. Tutto era finito, tutto incominciava. Erano l’incarnazione stessa della libertà, quei soldati: la nostra, e – ne eravamo convinti – quella che avrebbero portato in giro nel mondo. E i parigini instancabili riaprivano le porte della loro città liberata ad intellettuali dissidenti, confinati, esiliati: stringendosi mani entusiaste, scambiandosi sorrisi commossi, abbandonandosi ad un’ebbrezza di fratellanza in cui la sorte di ciascuno, lo si percepiva, era legata a quella di tutti – come non era mai capitato, neanche prima della guerra. La libertà, adesso, l’oppressione, la felicità e la sofferenza di tutti erano cose che li riguardavano direttamente. In prima persona e nessuno escluso.

Ma aprirsi alla storia non significò solo cancellare le sconfitte passate – e né la vittoria né l’avvenire che essa schiudeva potevano dirsi ormai appartenute pienamente alla Francia. Si percepiva il tentativo di afferrare un che di sfuggente, di non ancora conquistato, che in parte strideva con la fame di pienezza che esalta un popolo emancipato. C’era qualcosa che alla Parigi occupata e chiusa nel suo collaborazionismo era sfuggito, e con cui ora, libera, si trovava a fare i conti: la Seconda guerra mondiale, quella combattuta, quella degli altri.

«Questi incontri mi rivelavano una storia che era la mia e che non conoscevo. Aron ci raccontò tanti particolari dei bombardamenti di Londra, del sangue freddo degli inglesi, della loro sopportazione; quelle V1 rosse nel cielo nero che avevo visto passare su Neuilly-sous-Clermont, a Londra diventavano un fischio invisibile, un’esplosione e dei morti. Mi prestò la collezione di France Libre e potei decifrarvi la guerra dall’altro polo, non più vista da Parigi ma da Londra. Avevo vissuto come una reclusa; mi si riapriva il mondo. Un mondo devastato. Subito dopo la liberazione furono scoperte le stanze di tortura della Gestapo e vennero alla luce dei carnai. Bianca mi parlò del Vercors; mi raccontò dei giorni che suo padre e suo marito avevano passato nascosti in una grotta; i giornali erano pieni di particolari sui massacri, sulle esecuzioni di ostaggi; vennero pubblicati dei pezzi sulla distruzione di Varsavia. E non osavamo pensare a quello che stava succedendo nei campi di concentramento, ora che i tedeschi sapevano che per loro era finita. Questo passato che ci veniva rivelato così bruscamente mi faceva ripiombare nell’orrore; la gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti.»

(da Simone de Beauvoir, La forza delle cose)

La gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti. Al pensiero di ciò che si erano persi, costretti nell’egoismo delle proprie sofferenze, i francesi occupati e ormai liberati scendevano a patti con la storia: e di essa scoprivano le atrocità, le storture, i morbi. Ne venivano toccati come accade con la ventata potente che soffia dopo ch’è passato un treno: inaspettatamente e di sorpresa.

E così come allora l’occupazione nazista di Parigi sembrò niente se paragonata al destino degli ebrei nei campi del Terzo Reich, allo stesso modo oggi, in Occidente, attraversiamo una crisi la cui conclusione ci farà vergognare di averla scampata, e di esserne sopravvissuti. Corrosi dai sensi di colpa per non aver dedicato un pensiero, un titolo di giornale o un canto dal balcone alla bambina di sei anni arsa viva nell’incendio che ha annerito il campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo. Un’altra, innocente vittima d’un contagio di nome guerra civile che non lascia scampo neppure ai più forti, neppure ai bambini. Perché in guerra non c’è casa in cui si possa restare né luogo ove sia concesso cantare: ma solo polvere, granate e centinaia di migliaia di morti.

Riuscite a pensarci? Come se il virus, invece che fuori di casa, dilagasse entro le mura della vostra dimora: nel cibo che mangiate, nei vestiti che indossate distratti. Come se uscisse dagli armadi, sgusciasse fuori dai cassetti, o da sotto ai letti, quando è notte e non riuscite a dormire. Come se le vostre madri diventassero matrigne, e despoti i vostri padri: e i vostri fratelli vi calunniassero, vi denunciassero, vi tradissero, e vi lasciassero soli. Come se il vicino dirimpetto promettesse di offrirvi rifugio e quiete per poi trattenervi come ostaggi, perseguitarvi, torturarvi, vendervi schiavi, utilizzarvi come strumento di minaccia in uno stato di perenne guerra di deterrenza. Come se da un giorno all’altro vi svelasse una porticina segreta, una via di fuga, una finestra affacciata su di un sogno chiamato Europa: e voi in massa, disperati, tentaste di fluirvi tutti insieme, traverso quella provvidenziale via di salvezza. Per trovarvi, alla frontiera, sputi e manganellate. Il sogno che speravate ha la sembianza dei vostri fratelli traditori, dei vostri padri tiranni, dei ventri aridi e inospitali delle matrigne che avete lasciate. La democrazia che speravate vi brucia le scuole, vi lascia senz’acqua, vi costringe a dormire all’addiaccio, nel freddo di febbraio. Ammazza i vostri bambini e vi rimprovera di non averli protetti; stupra le vostre mogli e vi accusa di non averle sapute amare. Vi succhia quel po’ di sangue che vi è rimasto e, se avete denaro, vi spinge a tornare indietro, verso il confine turco, un po’ più vicini all’Afghanistan, alla Siria, tra le esplosioni e i gas chimici: e voi lo fate, perché tanto cosa cambia, tra morire di freddo, annegati e bruciati o morire sotto una granata, che almeno possiate morire a casa – o in quel che ne è rimasto.

E tanto più grave è la morte di una bambina ch’era scampata alla guerra afghana, alle bombe e ai talebani: che ce l’aveva quasi fatta, e aveva raggiunto l’Europa. Anche se il campo profughi di Moria, progettato per contenere meno di tremila persona, ne ospita di fatto quasi ventimila – e in condizioni disastrose. Dove spegnersi per una pandemia è solo uno dei punti da aggiungere alla lista dei fattori per cui morire. E dove la malnutrizione, le condizioni igieniche, le violenze inaudite a cui troppe persone sono abituate – e alla cui narrazione ci andiamo abituando anche noi – uccidono senza sosta ormai da anni.

Chiusi nelle nostre case, isolati e al sicuro, amiamo rifugiarci nei racconti della liberazione; nella fine della guerra; nella cacciata del nemico invasore. Ci addormentiamo a sera, mai del tutto stanchi, progettando il dopo. Quando tutto sarà finito, ci chiediamo, chissà come ci ritroveremo: andremo a ballare, viaggeremo oltreconfine, avanzeremo senza freni nella sicura rincorsa delle nostre ambizioni. Quando tutto sarà finito, quando tutto comincerà di nuovo, noi, superstiti – lo sappiamo – torneremo di certo a stringerci: commossi. Ma con la vaga sensazione di non poterla afferrare mai del tutto, questa tanto agognata libertà.

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