Noi, superstiti

Sulla gioia di vivere e sulla vergogna di non essere morti

di Valeria Rando


L’agosto del ’44 e le cronache dell’apertura di Parigi: fu la liberazione. Tutto era finito. I bambini cantavano versi sfottenti per i boulevard, accogliendo i soldati americani vestiti in kaki, alti, ridenti, presi a masticare chewing-gum, baciare ragazze esuberanti, attardarsi per le vie dopo la chiusura dei caffè – e ch’eran lì per testimoniare che si potevano di nuovo, e finalmente, attraversare i mari. Tutto era finito, tutto incominciava. Erano l’incarnazione stessa della libertà, quei soldati: la nostra, e – ne eravamo convinti – quella che avrebbero portato in giro nel mondo. E i parigini instancabili riaprivano le porte della loro città liberata ad intellettuali dissidenti, confinati, esiliati: stringendosi mani entusiaste, scambiandosi sorrisi commossi, abbandonandosi ad un’ebbrezza di fratellanza in cui la sorte di ciascuno, lo si percepiva, era legata a quella di tutti – come non era mai capitato, neanche prima della guerra. La libertà, adesso, l’oppressione, la felicità e la sofferenza di tutti erano cose che li riguardavano direttamente. In prima persona e nessuno escluso.

Ma aprirsi alla storia non significò solo cancellare le sconfitte passate – e né la vittoria né l’avvenire che essa schiudeva potevano dirsi ormai appartenute pienamente alla Francia. Si percepiva il tentativo di afferrare un che di sfuggente, di non ancora conquistato, che in parte strideva con la fame di pienezza che esalta un popolo emancipato. C’era qualcosa che alla Parigi occupata e chiusa nel suo collaborazionismo era sfuggito, e con cui ora, libera, si trovava a fare i conti: la Seconda guerra mondiale, quella combattuta, quella degli altri.

«Questi incontri mi rivelavano una storia che era la mia e che non conoscevo. Aron ci raccontò tanti particolari dei bombardamenti di Londra, del sangue freddo degli inglesi, della loro sopportazione; quelle V1 rosse nel cielo nero che avevo visto passare su Neuilly-sous-Clermont, a Londra diventavano un fischio invisibile, un’esplosione e dei morti. Mi prestò la collezione di France Libre e potei decifrarvi la guerra dall’altro polo, non più vista da Parigi ma da Londra. Avevo vissuto come una reclusa; mi si riapriva il mondo. Un mondo devastato. Subito dopo la liberazione furono scoperte le stanze di tortura della Gestapo e vennero alla luce dei carnai. Bianca mi parlò del Vercors; mi raccontò dei giorni che suo padre e suo marito avevano passato nascosti in una grotta; i giornali erano pieni di particolari sui massacri, sulle esecuzioni di ostaggi; vennero pubblicati dei pezzi sulla distruzione di Varsavia. E non osavamo pensare a quello che stava succedendo nei campi di concentramento, ora che i tedeschi sapevano che per loro era finita. Questo passato che ci veniva rivelato così bruscamente mi faceva ripiombare nell’orrore; la gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti.»

(da Simone de Beauvoir, La forza delle cose)

La gioia di vivere era sopraffatta dalla vergogna di non essere morti. Al pensiero di ciò che si erano persi, costretti nell’egoismo delle proprie sofferenze, i francesi occupati e ormai liberati scendevano a patti con la storia: e di essa scoprivano le atrocità, le storture, i morbi. Ne venivano toccati come accade con la ventata potente che soffia dopo ch’è passato un treno: inaspettatamente e di sorpresa.

E così come allora l’occupazione nazista di Parigi sembrò niente se paragonata al destino degli ebrei nei campi del Terzo Reich, allo stesso modo oggi, in Occidente, attraversiamo una crisi la cui conclusione ci farà vergognare di averla scampata, e di esserne sopravvissuti. Corrosi dai sensi di colpa per non aver dedicato un pensiero, un titolo di giornale o un canto dal balcone alla bambina di sei anni arsa viva nell’incendio che ha annerito il campo profughi di Moria, sull’isola di Lesbo. Un’altra, innocente vittima d’un contagio di nome guerra civile che non lascia scampo neppure ai più forti, neppure ai bambini. Perché in guerra non c’è casa in cui si possa restare né luogo ove sia concesso cantare: ma solo polvere, granate e centinaia di migliaia di morti.

Riuscite a pensarci? Come se il virus, invece che fuori di casa, dilagasse entro le mura della vostra dimora: nel cibo che mangiate, nei vestiti che indossate distratti. Come se uscisse dagli armadi, sgusciasse fuori dai cassetti, o da sotto ai letti, quando è notte e non riuscite a dormire. Come se le vostre madri diventassero matrigne, e despoti i vostri padri: e i vostri fratelli vi calunniassero, vi denunciassero, vi tradissero, e vi lasciassero soli. Come se il vicino dirimpetto promettesse di offrirvi rifugio e quiete per poi trattenervi come ostaggi, perseguitarvi, torturarvi, vendervi schiavi, utilizzarvi come strumento di minaccia in uno stato di perenne guerra di deterrenza. Come se da un giorno all’altro vi svelasse una porticina segreta, una via di fuga, una finestra affacciata su di un sogno chiamato Europa: e voi in massa, disperati, tentaste di fluirvi tutti insieme, traverso quella provvidenziale via di salvezza. Per trovarvi, alla frontiera, sputi e manganellate. Il sogno che speravate ha la sembianza dei vostri fratelli traditori, dei vostri padri tiranni, dei ventri aridi e inospitali delle matrigne che avete lasciate. La democrazia che speravate vi brucia le scuole, vi lascia senz’acqua, vi costringe a dormire all’addiaccio, nel freddo di febbraio. Ammazza i vostri bambini e vi rimprovera di non averli protetti; stupra le vostre mogli e vi accusa di non averle sapute amare. Vi succhia quel po’ di sangue che vi è rimasto e, se avete denaro, vi spinge a tornare indietro, verso il confine turco, un po’ più vicini all’Afghanistan, alla Siria, tra le esplosioni e i gas chimici: e voi lo fate, perché tanto cosa cambia, tra morire di freddo, annegati e bruciati o morire sotto una granata, che almeno possiate morire a casa – o in quel che ne è rimasto.

E tanto più grave è la morte di una bambina ch’era scampata alla guerra afghana, alle bombe e ai talebani: che ce l’aveva quasi fatta, e aveva raggiunto l’Europa. Anche se il campo profughi di Moria, progettato per contenere meno di tremila persona, ne ospita di fatto quasi ventimila – e in condizioni disastrose. Dove spegnersi per una pandemia è solo uno dei punti da aggiungere alla lista dei fattori per cui morire. E dove la malnutrizione, le condizioni igieniche, le violenze inaudite a cui troppe persone sono abituate – e alla cui narrazione ci andiamo abituando anche noi – uccidono senza sosta ormai da anni.

Chiusi nelle nostre case, isolati e al sicuro, amiamo rifugiarci nei racconti della liberazione; nella fine della guerra; nella cacciata del nemico invasore. Ci addormentiamo a sera, mai del tutto stanchi, progettando il dopo. Quando tutto sarà finito, ci chiediamo, chissà come ci ritroveremo: andremo a ballare, viaggeremo oltreconfine, avanzeremo senza freni nella sicura rincorsa delle nostre ambizioni. Quando tutto sarà finito, quando tutto comincerà di nuovo, noi, superstiti – lo sappiamo – torneremo di certo a stringerci: commossi. Ma con la vaga sensazione di non poterla afferrare mai del tutto, questa tanto agognata libertà.

Ultimo canto di un profugo

Cronache di migrazioni dall’isola di Lesbo: la Turchia spalanca le frontiere ai rifugiati siriani e gli sbarchi sulle porte greche dell’Europa diventano ingestibili

di Valeria Rando


Nella mia memoria di adolescente, l’isola di Lesbo si è sempre tinta dei toni tragici legati alla morte di Saffo. Ritratta ai margini di una scogliera, in un paesaggio notturno rischiarato dai raggi di luna, mi è sempre piaciuto immaginarla serena, ferma nell’atto di gettarsi nel buio cupo del mare sottostante. La disperazione, del resto, quella più acuta che accompagna gli ultimi istanti di una vita sofferta – anche se immersa nel mito –, l’ho sempre saputa immobile, indifferente: non burrascosa, e mai urlante. Immersa in una cornice romantica, col mare piatto e il vento tiepido: quello di un banale giorno di marzo in cui lasciarsi morire.

Anche se a chi muore non è concesso di allietarsi del mare calmo della Grecia: non delle pareti montuose, non delle sue valli profonde; delle sponde dei fiumi, delle onde che lievi lambiscono le rive sassose, del raggio pudico della luna primaverile – o del sorgere timido di Venere, quando cala il buio. Nessun dolce spettacolo rallegra chi è disperato: e non c’è pianto o grido di dolore che possa competere col silenzio d’un corpo a cui la vita è stata strappata troppo prematuramente.

Sulle sponde di Lesbo giace da poche ore la salma di un bambino di quattro anni appena, siriano, in fuga senza colpe da un Paese che pare in una guerra perenne – o che almeno, in guerra, c’era da prima che lui venisse al mondo. È morto annegato su un barcone che s’illudeva potesse trarlo in salvo verso la tanto bramata Europa, dopo che l’inasprirsi dei conflitti nel nord della Siria e la passività con cui l’Occidente ha assistito agli scontri han portato il presidente turco Erdoğan ad aprire le frontiere ai profughi siriani rifugiati nel Paese. Dopo quattro anni dall’accordo dell’Unione Europea per chiudere la rotta migratoria dell’Egeo, si sta tragicamente compiendo il destino che in molti temevano: quello di un ricatto crudele cucito sulla pelle dei migranti. Utilizzandone le speranze e i sogni di riscatto come arma per ricattare l’Europa, al nuovo sultano di Ankara è bastato affermare che la polizia di frontiera non ne avrebbe frenati i tentativi di fuga per gettare il mondo in stato di crisi. E per convincere i Paesi europei a prendere delle misure drastiche per frenare il tanto temuto rischio di invasione.

Così, mentre le partenze si sono moltiplicate massicciamente, e in un solo giorno più di 1300 persone sono sbarcate sulle già disagevoli isole greche, l’insofferenza di chi guarda le guerre al di qua del confine di sicurezza veste i panni del neonazismo e aggredisce chiunque tenti di dare un aiuto agli sfollati in fuga. Sono i gruppi di estrema destra di Alba Dorata, la lega popolare nazionalista nata negli anni Novanta e tristemente nota per i massacri contro i musulmani bosniaci nella spietata guerra jugoslava. Ad oggi, blocchi stradali impediscono ai profughi di raggiungere il centro di detenzione principale, a Moria, costringendoli a dormire all’addiaccio, al freddo, buttati in tendopoli provvisorie – o al peggio sulla battigia. E non mancano le repressioni minatorie agli attivisti e ai giornalisti, vittime del tipo di violenze che si confarebbero più ad un teatro di guerra che ad un’isola nota per essere stata per anni pacifico rifugio e ponte di salvezza. E che oggi par quasi essersi trasformata in una prigione a cielo aperto che non smette di bruciare. Campi profughi dati alle fiamme, volontari intimidati, presi a sassate, migranti che hanno imparato a muoversi poco, e sempre in gruppo, ignorati da uno spietato senso comune che trasforma in questione politica una tragedia umanitaria senza tempo.

E dove le vittime, infondo, son sempre le stesse: gli ultimi, sfruttati, massacrati, perenni fuggitivi. Le anime nate per essere esiliate, gli ospiti volgari e sgraditi, gli amanti disprezzati, a cui in vita non sorrisero le rive soleggiate né le albe spalancate sul cielo. Sono parole che Leopardi, circa due secoli fa, mise in bocca a Saffo nel suo celebre Ultimo canto, e che mai mi son parse così attuali. Sono i tormenti disperati delle giovani anime morenti tradotti nella lucidità di un verso piano, di un mare calmo: che è la più atroce forma di sofferenza. A loro non è concesso il saluto del canto degli uccelli né il mormorio dei faggi: e persino il ruscello, così solito a destreggiarsi all’ombra dei salici, ritrae sdegnoso le sue acque al contatto coi loro corpi, e li rigetta, sputandoli sulla riva e tornando a serpeggiare. Ed è inutile chiedersi di quale colpa, di quale indicibile misfatto si macchiarono prima di nascere, tali che il cielo e la sorte fossero così ostili. O in che cosa peccarono da bambini, quando la vita non conosce ancora il peccato, perché il caso avvolgesse il filo rugginoso delle loro vite privandoli del fiorire della gioventù. Non v’è risposta. Sono una prole dimenticata, nata per piangere; e la ragione di ciò è nota soltanto a dio: ammesso che vi sia.

E morremo, moriremo. Il velo indegno a terra sparto, gettati a terra questi corpi indegni, rifuggirà l’ignudo animo a Dite, le loro anime, nude, fuggiranno nel regno dei morti: e il crudo fallo emenderà del cieco dispensator de’ casi. E solo così sarà riparato il crudele errore di questo cieco destino.

Sì, moriranno. E lentamente morirà anche quest’Europa inerte, indifferente, preoccupata del destino dei profughi siriani solo quando questo minaccia di incidere sul suo. E che non pensa alle bombe dei russi su Idlib; agli attacchi di Assad che dal 2015 distruggono le scuole e gli ospedali del suo stesso popolo; alle repressioni punitive dei turchi per ciascuno dei loro soldati ammazzati, ma contro i civili; al silenzio dei media, alle violenze sui giornalisti che tentano di urlare la verità, al soffocamento delle voci imberbi dei dissidenti. Muore lentamente l’Europa che aspetta la morte di un bimbo di quattro anni per indignarsi: e per ricordare che un corpicino così, esanime su una riva d’invano sperata salvezza, l’aveva già visto, e già se n’era indignata.

Era il 2015, e lui fu noto al mondo come Alan Kurdi. E oggi, mentre il ricordo sbiadito di quella magliettina rossa stesa prona sul bagnasciuga, di quel volto pulito insozzato dalla sabbia, torna d’improvviso a farsi nitido, a disturbarci i pensieri, vien da pensare a chissà quante altre inutili morti dovranno sconvolgerci – o passarci, distratte, accanto – prima che anche a questo bimbo di Lesbo venga assegnato un nome: che diventi un simbolo: che venga presto, anche lui, crudelmente dimenticato.

Nel nome del Padre

L’Iran dopo Soleimani: storia di un prevedibile destino. Il martirio del carnefice

di Valeria Rando


All’indomani delle elezioni iraniane, le undicesime nella storia della Repubblica islamica, il Parlamento si prepara alla guerra. Che sia indossando la divisa militare o le più allarmanti vesti clericali, poco importa. Soprattutto in uno Stato in cui la classe dei mullah detiene le redini del potere politico e il capo dei pasdaran – quel Soleimani rimasto nell’ombra sino al suo assassinio, lo scorso 3 gennaio – viene venerato come un santo. Anzi, tanto più semplice e spontanea è la venerazione se a causarne la morte, a battezzarne il martirio, è il nemico per eccellenza: l’America, meglio nota agli iraniani come il Grande Satana. E in questa reciproca e rischiosa personificazione del potere, in questo scontro diplomatico che le semplificazioni guidate dall’emozione rischiano di ridurre al duello Trump-Soleimani, è facile che le piazze di popolo scese a manifestare consapevolmente contro un regime liberticida si affollino d’improvviso di schiave masse informi. Ferite nell’orgoglio, dunque impulsive, esaltate. E soprattutto, in quanto acefale, incapaci di immaginarsi prive di un capo.

Anche se il capo era un killer seriale, e la ghigliottina un probabile strumento di liberazione. Soleimani è stato infatti un indomito generale alla guida della Forza Quds, una formazione militare operante al di fuori del territorio di Teheran e impegnata, tra Afghanistan, Siria, Iraq e Libano, a difendere e divulgare i principi raggiunti dalla Rivoluzione khomeinista nel 1979. Nominato direttamente dalla Guida Suprema, il leader di una forza di tale portata – con compiti militarmente estesi e politicamente delicatissimi – non poteva che essere un fedelissimo e rigoroso sostenitore del regime, considerato da molti modesto, frugale, sinceramente devoto alla causa del suo Paese. Dunque, necessariamente intriso di indubbio fervore religioso e di cieca fiducia nel sistema. Ragion per cui, dopo aver sostenuto i curdi iracheni contro Saddam Hussein e supportato in Afghanistan i nemici del governo di Najibullah, dopo aver addestrato le milizie filogovernative in Iraq e in Siria nella sanguinosissima guerra all’Isis, sembrò categorico tentar di sopprimere non senza brutalità ogni tentativo di opposizione al disegno che l’Iran – erede dell’antico impero persiano – pare ancora ostinarsi a serbare per sé. Essere, cioè, il baluardo contro l’infiltrazione americana in Medio Oriente. Sebbene per farlo abbia spesso finito col contraddirsi, macchiandosi della stessa colpa di cui da tempo accusa gli Stati Uniti: la violazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione dei popoli mediorientali. Non solo, infatti, il generale del popolo fu il responsabile della trasformazione dell’Iraq in un campo di battaglia dopo la sconfitta dei soldati di Saddam; non solo, più recentemente, è stato il mandante dei cecchini incaricati di far fuoco sulla folla di studenti manifestanti a piazza Tahrir, a Baghdad: il «martire della Rivoluzione», così definito dall’ayatollah Khamenei, è stato l’architetto della repressione in difesa del regime di Bashar Assad in Siria; ha orchestrato la guerra in Yemen, una delle più critiche dal punto di vista umanitario dei nostri tempi; è spiccato tra i massimi fautori dell’apparato militare di Hezbollah in Libano, partito macchiatosi di violente soppressioni delle proteste che dallo scorso ottobre infiammano il Paese.

Con la tragicomica conclusione, da parte delle due potenze rivali, di una reciproca denuncia di terrorismo: religioso e fondamentalista l’uno, economico e accecato dal capitalismo l’altro. Ma entrambi, loro malgrado, così simili nella folle isteria neocoloniale che affligge i grandi imperi all’epilogo.

Con l’assassinio di Soleimani la Repubblica islamica non è stata colpita solo alla testa: ma anche, e forse più gravemente, nell’orgoglio. L’inatteso attacco statunitense ha finito con l’essere percepito non come un monito né un’astuta strategia diplomatica – bensì come un insulto; un’odiosa smania di potere; un colpo sferrato dritto al senso dell’onore di una nazione: e che nella nazione brucia come una strage interiore. Provocando come insperata reazione l’unificazione delle piazze in rivolta contro il Grande Satana in abito scuro: anche di quelle che fino a qualche giorno prima protestavano contro lo stesso regime iraniano, denunciandone criticità e corruzione. Una volta ucciso, il carnefice del popolo è diventato padre del popolo – e da spietato assassino si è trasformato in vittima, martire, nuovo eroe militare di una nazione offesa. Risultando paradossalmente più celebre – dunque agli occhi degli americani pericoloso – da morto di quanto non lo sia stato da vivo.

Eppure sarebbe un errore considerare la condivisa furia contro l’America come un tacito sostegno al regime. Dei milioni di persone scese in piazza per piangere la salma del leader, ben pochi si possono considerare suoi sostenitori. E questo proprio a causa dell’incapacità gestionale di un governo che in più occasioni ha dato prova della sua spietata inadeguatezza, causando da novembre centinaia di morti allo scopo di rendere insopportabile il prezzo dello scontro a chi osa minacciare il regime. Ma a quel regime inserito da Bush nella lista dei nemici dell’America nota come “asse del male”, Trump, pur senza volerlo, ha fatto un favore. Perché c’è solo uno strumento in grado di calmare l’odio di piazza quando la repressione del governo non funziona: ed è un odio più grande.

È così che si scrive il martirologio di Soleimani: perdonandogli, tra le lacrime, ogni efferatezza. Ed ergendolo a simbolo di una discutibile esibizione d’orgoglio imperiale. Senza badare al fatto che le vittime più vulnerabili, passate le elezioni parlamentari con risultati prevedibilmente a favore delle forze conservatrici, i veri sconfitti, in questa guerra ch’è ancora una guerra di deterrenza e di minacce intimidatorie, sono loro: gli iraniani. I fautori e al contempo gli oppressi della Rivoluzione. I sostenitori e i ribelli della Repubblica islamica. Le ragazze truccate e quelle costrette in un informe chador. I progressisti a cui non importa più avere rappresentanza politica. I rivoltosi costretti al silenzio e che adesso, sconfitto il tiranno, in silenzio scelgono di restare: perché all’oppressore d’oltreoceano preferivano l’oppressore connazionale. Per dirla freudianamente, gli eterni prigionieri del padre defunto.

Le svastiche sono tornate di moda

di Grazia Enerina Pisano

Colosseo quadrato, EUR-Roma, maggio 2019

Giusto due giorni fa il monumento partigiano alla Brigata Cremona di Camerlona è stato macchiato da una svastica: siamo in provincia di Ravenna, Emilia-Romagna.

Il 23 gennaio ad Andria compare una svastica sulla facciata della cattedrale: siamo in Puglia. Il 24 gennaio le sedi degli scout in provincia di Noto e Siracusa vengono imbrattate da svastiche e scritte antisemite: siamo in Sicilia. Il 25 gennaio i murales dedicati al poeta Raffele Urru vengono sporcati con una svastica: siamo a Burcei, Sardegna. La notte del 27 gennaio, notte della Giornata della Memoria, a Rezzato viene sfondata la vetrina del bar Casablanca; sul pavimento la scritta “Negra, troia” seguita da una svastica come firma: siamo in provincia di Brescia, Lombardia. È sempre il 27 gennaio, Giornata della Memoria, quando viene marchiata con una svastica la porta di casa della figlia di una staffetta partigiana, di seguito la frase “Crepa sporca ebrea”: siamo a Torino, Piemonte. Il 28 gennaio fuori dalla sede del PD di Torrebelvicino spunta un volantino con scritto “27 gennaio giornata della memoria ricordiamoci di riaprire i forni: ebrei, rom, sinti, froci, negri, comunisti ingresso libero”, firmato svastica e SSVI (milizia speciale tedesca di Verona): siamo in provincia di Vicenza, Veneto. Il 1° febbraio compaiono sui muri del centro di Mirabella una serie di svastiche: siamo in provincia di Avellino, Campania. L’8 febbraio a San Daniele del Friuli, con una svastica viene segnata la porta di casa di Arianna Szorenyi, deportata ad Auschwitz il 16 giugno del 1944; “Perché dopo 75 anni un ebreo è sempre un ebreo” recitano le lettere giunte ai consiglieri dello stesso comune il 30 gennaio: siamo in provincia di Udine, Friuli-Venezia Giulia. Il 14 febbraio il sindacalista leader dell’USB Aboubakar Soumahoro denuncia via social la svastica incisa sulla propria auto: siamo a Roma, la Capitale, Lazio.

Forse per la prima volta l’Italia ha raggiunto l’unità: dal Nord baluardo del progresso, al profondo Sud, isole comprese, il nostro Bel Paese si tinge di svastiche. Svastiche rosse, svastiche nere, svastiche al contrario, svastiche di ogni tipo, svastiche a volontà. Una firma, un segno, un simbolo.

Quella croce uncinata ricordo dei tempi più bui della nostra nazione sembra essere tornata di moda. E l’apologia di fascismo sembra ormai sopravvalutata. Gli esponenti dell’Anpi (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) si indignano accusando l’ignoranza. Gli stessi esponenti di quell’Anpi che secondo Pippi Mellone (sindaco di Nardò) sarebbero un pericolo per la democrazia. Uomini e donne di un’associazione nata il 5 aprile 1945, in un’Italia ancora monarchica, in un’Italia in cui era facile sentire il vento che fischiava di Libertà e Resistenza, in un’Italia che il 25 aprile si dichiarava apertamente antifascista.

Secondo altri, invece, si tratta di ragazzate.

Ragazzate che, in relazione alla Costituzione della Repubblica italiana, Costituzione antifascista, Costituzione figlia di un comune accordo dei padri costituenti rappresentanti di tutte le fazioni politiche, lasciano l’amaro in bocca. Ragazzate mai finite fin dai primi anni del secondo dopoguerra. Era il 25 aprile 1945 e Milano venne liberata dal Comitato di Liberazione Alta Italia. Era il 29 aprile 1945 e il corpo del duce venne appreso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano, nello stesso piazzale in cui il 10 aprile 1944 furono fucilati 15 partigiani nell’eccidio compiuto dalla Legione autonoma della Repubblica Sociale Italiana. Era il 2 giugno 1946 e gli italiani, donne e uomini, votarono: vinse la Repubblica. Era il 25 giugno 1946 e iniziarono i lavori dell’Assemblea costituente, con l’obiettivo di redigere una Costituzione figlia di compromessi e sintesi delle differenti ideologie, apertamente antifascista. Era il 26 dicembre 1946 e il Movimento Sociale Italiano (MSI) venne fondato da uomini nostalgici del regime come Giorgio Almirante e dal suo camerata Pino Romualdi, reduci della Repubblica Sociale Italiana e vecchi appartenenti al Partito Nazionale fascista. Era il 20 giugno 1952 e fu approvata la Legge Scelba, introducendo il reato di apologia di fascismo.

Ma il MSI non fu mai disciolto, sebbene ripetutamente accusato di neofascismo. Era il 1994 e il MSI divenne MSI-Alleanza Nazionale, partito che nel 2012 avrebbe dato vita a Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale che, dopo le ultime hit, oggi registra il 12.9 % nei sondaggi politici nazionali.

Ma dalla costola del MSI nacquero tanti altri partitini, alcuni sciolti per apologia (quali Ordine nuovo e Avanguardia Nazionale), altri ancora in campo: è il caso di Forza Nuova, partito fondato nel 1997 da Roberto Fiore, terrorista nero scappato a Londra nel 1980, anno in cui i suoi camerati Valerio Fioravanti e Francesca Mambro eseguono la strage di Bologna il 2 agosto: 85 vittime e mandanti identificati solo nel 2020. Nel 1982 un giudice britannico respinge la richiesta italiana di estradizione: Fiore è al sicuro. È il 21 aprile 1999 e Roberto Fiore torna in Italia ricco e libero. Soprattutto libero. Libero di guidare un partito di nome Forza Nuova, il cui slogan recita “Italia agli Italiani”, promuovendo l’abolizione delle pratiche abortiste, politiche di rinascita nazionale e di maternità, ritorno ai concordati del 1929, ripresa della riforma economica del 1926 e, soprattutto, abrogazione delle leggi Mancino e Scelba: “leggi liberticide espressioni normative di una cultura dominante che tirannicamente impedisce pensiero e azione”.

A questo punto si potrebbe tranquillamente affermare che in Italia i fascisti non esistono, che le sinistre sono ossessionate dall’idea di fascismo, che “il fascismo è un’idea morta”, come assicurato dalla parola di Matteo Salvini. Si potrebbe tranquillamente dichiarare che Bella ciao sia ormai una canzone antiquata, morta, figlia di un passato ormai superato. Oppure si potrebbe tranquillamente sostenere che si tratti di una canzone di sinistra e magari pure antifascista; una canzone da non cantare per non incorrere nel rischio di fare politica.

Perché alla fine il partigiano poteva pure morire da uomo qualunque, nel letto comodo di casa sua, sotto il fascismo, continuando a raccontare che si tratta solo di ragazzate. E invece, in nome di quel vento che forse da qualche parte fischia ancora, scelse di morire da partigiano, sepolto sotto l’ombra di un bel fior.

Se l’India muore

Nel Paese noto per la diversità delle sue culture si diffonde un’ondata di nazionalismo: e i musulmani ne sono la vittima principale

di Valeria Rando

Jama Masjid, moschea a Fathepur Sikri, Agra

C’era un tempo in cui l’India non esisteva. O meglio, respirava spontaneamente, e spontaneamente fioriva, inconsapevole del suo stesso stare al mondo. Ma per l’Occidente, banalmente, non c’era. Gli stati nazione, allora, erano di là da essere inventati, lontani dal forgiare le menti dei popoli con il loro delirio nazionalista, e l’identità degli individui, i loro nomi, non si modellavano sull’astrazione di un confine tracciato sulla carta: ma sulla naturale morfologia degli spazi. Sui monti e sui fiumi, sulle tradizioni popolari tramandate all’ombra del focolare, sul modo arioso – o ritratto – di pronunciare una vocale. India fu il nome che gli antichi greci prima, e gli esploratori europei poi, attribuirono ai territori estesi al di là del fiume Indo, come a voler segnare il limite del proprio controllo cognitivo sul mondo uniformando brutalmente la vivacità culturale che oltre quel fiume, da migliaia di anni, respirava e fioriva. E riducendola, appunto, alla vaghezza della parola singola che da sola non sa contenere le trame intricate di popoli e culture che sulla difformità della terra andavano costruendo la propria identità.

Se India fu il nome con cui l’invasore, dall’esterno, tentò di definire ciò che per definizione è indefinibile – ossia la diversità –, i nomi con cui gli indiani d’allora chiamarono i loro territori furono tanti e differenti, ciascuno specchio di un particolare tipo di suolo, clima o ecosistema. Il Doab, termine che in sanscrito significa «le due acque», indicava la terra compresa tra il Gange e lo Yamuna; il Punjab, la regione dei cinque fiumi; il Sindh, la valle del fiume Indo, nonché casa dei monti Vindhya e dell’Himalaya; il Bharat, nome mitico dell’epoca vedica con cui l’India soleva dirsi dall’interno. E sotto questi nomi così evocativi conviveva una straordinaria pluralità di fedi e comunità religiose: induisti, musulmani, cristiani, giainisti, buddisti, oltre a svariate aggregazioni tribali. Indù, allora, non era un termine religioso – ma territoriale, e come tale mirava ad accomunare in un vincolo quasi fraterno tutte le comunità che, pur parlando lingue diverse, come tutt’ora fanno, avrebbero saputo riconoscersi tra mille grazie al loro singolarissimo modo di vivere e di concepire la vita: spiritualmente, moralmente e concordemente alle più varie e molteplici forme della natura.

Almeno finché l’astuto colonizzatore inglese e l’ombra della partition non giunsero a snaturare tale difformità, imponendo il modello di un territorio diviso e abitato da due sole culture ufficialmente definite e incapaci di convivere in pace. Tra i musulmani guidati unicamente dalla legge scritta del Corano e i gentoo, termine che inizialmente indicava gli induisti, venne a crearsi una frattura fasulla, un’ostilità inconsueta, un apartheid fondato sulla menzogna del quale l’India contemporanea porta ancora il peso. E segnando così un confine innaturale senza curarsi di lasciar sbattuti fuori – o intrappolati dentro – tutti i musulmani credenti al ciclo delle rinascite o gli induisti che rifiutano di mangiar carne di maiale e bere alcolici perché concittadini dei figli di Allah.

Oggi, nell’India invasa dal nazionalismo estremista indù del primo ministro Narendra Modi, sono loro, i figli di Allah, i musulmani indiani, a pagarne il prezzo più alto. In un’India in cui si progetta di applicare il «modello Israele», con la pretesa d’uno stesso ancoraggio ad una tradizione razziale monolitica non scritta, pare non esserci spazio per la minoranza islamica. E la legge sulla cittadinanza proposta dall’attuale governo lo scorso dicembre lo afferma sfacciatamente, e senza indugi. Nell’India agli induisti, in cui risorge il culto per l’assassino di Gandhi, la cittadinanza verrà assegnata alle popolazioni indù, sikh, buddiste, giainiste, parsi e cristiane emigrate da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan prima del 2015. I musulmani ne saranno esclusi, costituendo formalmente la maggioranza etnica nei paesi di provenienza: poco importa se perseguitati e calunniati. Con la messa a repentaglio della sicurezza anche per i cittadini di fede islamica che di fatto continuano a costituire la minoranza più popolosa del Paese.

Le violenze verso i musulmani, da tempo latenti in stati come il Gujarat, di cui Modi fu all’epoca presidente – dopo aver militato per anni tra le fila dell’RSS, partito fondato sotto le influenze del nazifascismo – sono esplose d’un tratto sotto l’onda sorda d’un evento epocale: l’inattesa revoca dell’autonomia allo stato del Jammu e Kashmir, lo scorso 5 di agosto. La regione, confinante con il Pakistan e teatro di scontri violenti tra le due nazioni sorelle per assoggettarne il suolo sotto il proprio controllo, sin dalla proclamazione della partizione dell’Impero britannico ottenne la garanzia di uno statuto speciale: un principato guidato da un capo di stato induista, ma a maggioranza musulmana. Da allora, tra conflitti civili e brutali repressioni da parte di ambedue le autorità, ha rivendicato la sua indipendenza costituzionale, amministrativa e demografica, sopravvivendo a stento nella ferita aperta della linea di controllo tra le due zone di influenza. Anche se questo ha significato e significa tutt’ora vivere sotto un’occupazione in cui i militari continuano a macchiarsi di gravi violazioni dei diritti umani: a intimidare, rapire, torturare, stuprare, protetti dall’impunità che copre le forze di sicurezza nella strategia globale della lotta al terrorismo. E che invece andrebbe chiamata lotta all’islam: così, senza esitazione. Una farsa spietata volta a legittimare il sentimento diffuso di islamofobia che non ha fatto altro che dilagare da quando Modi e la sua retorica antislamica sono saliti al governo, uccidendo l’India e il sogno che il Mahatma Gandhi, originario del Gujarat, induista, musulmano, buddista e cristiano insieme – dunque candidamente indiano –, serbava per lei.

Revocarne l’indipendenza senza ricorrere allo strumento che di una democrazia dovrebbe essere costitutivo, ossia il diritto di voto, ha costretto migliaia di persone a sprofondare in quella lacerazione che ancora sgorga di sangue civile, e senza averlo scelto. A trovarsi – musulmani e non indiani: ma kashmiri – di colpo parte di uno stato che non ne riconosce la legittimità: né ideologica né religiosa né culturale. A vedere il proprio diritto alla cittadinanza minacciato dall’obbedienza ad un governo che di fatto non riconoscono. Ad essere sottoposti a censimento, controlli e inchieste porta a porta da parte di funzionari tassativamente indù pronti a schedarli, a spaventarli, a ghettizzarli, in nome di un progetto di nazionalizzazione delle culture che s’impone di estirpare dal suolo indiano ogni stilla di opposizione. E con loro tutti i 138 milioni di musulmani imprigionati in un regime che non li vorrebbe.

E come spesso accade, a decretare la vittoria dell’ideologia sulla morale, più che le leggi, più che i decreti, più che i comunicati dei potenti, sono le azioni quotidiane del popolo. Sono i gesti di bullismo nelle scuole, le incursioni dei fanatici nelle città, di notte, a poche ore dalle celebrazioni di una festa religiosa. Sono i ragazzi accerchiati, picchiati, e costretti a pronunciare parole di dedizione per divinità in cui non credono: om namah, Shiva, sia fatta la tua volontà. E che loro non pronunciano, ciechi d’orgoglio islamico come sono. E allora ancora insulti, ancora botte. È la paura delle istituzioni, la sfiducia per le forze di sicurezza, la triste certezza di non poter denunciare alla polizia né ai giornalisti, perché filogovernativi: dunque non banalmente induisti, ma terribilmente islamofobi.

Eppure, in questa escalation inquietante di eventi razzisti e discriminatori, una fiaccola di resistenza s’è accesa. Le piazze di Delhi, seguite dalle principali città del paese, si sono popolate di cortei di studenti, uomini e donne, di ceti abbienti e subalterni, per manifestare con rabbia il proprio dissenso. L’incostituzionale legge sulla cittadinanza ne è stata la miccia. E sebbene la risposta repressiva del governo e delle forze di polizia non si sia fatta attendere – causando decine di morti e feriti –, non è scemato il coraggio di chi si batte per l’assurdo e naturalissimo diritto d’abitare la propria terra. Anche se l’India muore: perché Antigone, al contrario, non muore mai.

Prima che sia troppo tardi, ora urliamo: “Libertà per Patrick George Zaky”

Nella speranza di non dover chiedere ancora #veritàper

di Grazia Enerina Pisano

Figlio mio, perché anche tu? Patrick George, perché anche a te?

Giovedì 6 febbraio la polizia egiziana ti ha accolto all’aeroporto del Cairo con un mandato di custodia cautelare di 15 giorni: una carcerazione preventiva che, da occidentale, mi riesce tanto difficile capire. Dicono che il mandato di cattura fosse stato emanato da tempo ma come facevi a non saperlo? Chissà se sei riuscito almeno a salutare i tuoi genitori come speravi.

Fascicolo 7245, le cinque accuse a te imputate: propaganda terrorista a mezzo internet, diffusione di fake news via social, istigazione alla protesta, sovvertimento e attacco al sistema politico e alla sicurezza nazionale, ingiurie al governo egiziano. Sei una vera e propria minaccia all’ordine pubblico che, nel migliore dei casi, ti porterebbe all’ergastolo: sai bene quale sia la soluzione peggiore, non devo di certo spiegartela io.

Ma dico, come hai potuto pensare anche solo per un secondo di poterti opporre al regime del presidente Al-Sisi sostenendo Khaled Alì nella sua campagna politica: quell’avvocato che pensa di poter denunciare gli abusi della polizia egiziana in nome dei diritti umani. Tu, studente di 27 anni, iscritto al Master GEMMA dell’Università di Bologna: studi di genere, diritti delle donne, diritti LGBTQI+, diritti di tutti.

Ma chi te l’ha fatto fare! Ma poi per chi? Per cosa? In nome di cosa?

Della libertà forse? Tu ce l’avevi la libertà: la libertà di svegliarti la mattina, la libertà di vedere il sole, la libertà di sentire il profumo dei sapori, la libertà di ascoltare il canto delle prime rondini in volo di questa prematura primavera, la libertà di correre sul prato al vento, la libertà di amare… e, invece, hai voluto anche la libertà di cercare.

Ah questa ricerca quanto è sopravvalutata. Tanti, troppi sono morti in nome della ricerca.

Pensa a Giulio, la sua storia non ti ha insegnato niente? Giulio che in questo inizio del 2020 abbiamo già ricordato: era il 25 gennaio 2016 quando venne rapito dai servizi di sicurezza del governo di Al-Sisi al Cairo; era il 3 febbraio 2016 quando il suo corpo senza vita è stato ritrovato nella strada del deserto che dal Cairo conduce ad Alessandria. Era un dottorando italiano dell’Università di Cambridge e si trovava in Egitto per fare delle ricerche riguardo la difficile situazione dei sindacati indipendenti egiziani dopo la crisi del 2011. Ricerche e scritti: denuncia. Anche lui cercava, ricercava, denunciava. Anche lui è stato torturato, anche il suo corpo è stato martoriato. Giulio tentava di smuovere il fango, quello stesso fango che poi l’ha travolto. Quella stessa merda che poi lo ha ucciso.

Perché la vita ti aveva offerto la possibilità di svegliarti la mattina in piena tranquillità, la possibilità di vedere il sole in piena tranquillità, la possibilità di sentire il profumo dei sapori in piena tranquillità, la possibilità di ascoltare il canto delle prime rondini in volo di questa prematura primavera in piena tranquillità, la possibilità di correre sul prato al vento in piena tranquillità, la possibilità di amare in piena tranquillità.

Potevi, in piena tranquillità, coltivare il tuo orticello, nella tua piccola area di mondo, conducendo una vita tranquilla e sicura. Sicura e tranquilla. Sicura, soprattutto.

E, invece, hai voluto anche la Libertà.

La Libertà di ricercare.

La Libertà di lottare.

La Libertà di scegliere da che parte stare.

La Libertà di domandare.

La Libertà di pensare.

La Libertà di parlare.

La Libertà di Vivere.

E la Libertà, alle volte, si paga: perché la Libertà dalle montagne di merda non è tollerata.

#libertàperPatrickGeorgeZaky

Quando c’erano loro

La nostalgia della dittatura: Gheddafi e Mussolini allo specchio

di Valeria Rando


In un reportage di Lorenzo Cremonesi dalla Libia leggevo di come spesso accada che, ad essere liberati con le bombe e dimenticati per anni in mezzo alle macerie, si finisca per rimpiangere la vita di regime. È così che fiorisce la nostalgia della dittatura. E nella Sirte passata nelle mani del generale Haftar, acclamato come un liberatore dal giogo dei miliziani di Misurata, il nome di Gheddafi ormai non è più un tabù: ed è a suo figlio Saif, secondogenito e mancato erede, che le speranze d’un popolo abituato a nient’altro che all’oppressione adesso si volgono.

In tanti dicono che la Libia, oggi matrice di puzzo di morte e corpi in putrefazione, quando c’era lui, non aveva alcun odore. Certo, non profumava di libertà: e la primavera che nel 2011 ne portò la caduta sembrava portare con sé l’aroma d’una nuova fioritura – prima di estinguersi anch’essa in un deplorevole tanfo di sangue. Ma intanto si aprivano cantieri, nuovi e maestosi palazzi spuntavano come funghi, passeggiando per le strade non si rischiava di finire sotto una bomba, le donne si spogliavano dei loro veli, i pozzi petroliferi davano i frutti che il malcapitato impero italiano non aveva avuto il tempo di cogliere. Citando un luogo comune che spesso appanna le menti di chi rimpiange il ventennio fascista – forse dimenticando delle repressioni, delle violenze inaudite, delle persecuzioni che ne tormentarono i dubbiosi: bada bene, non solo i dissidenti – i treni, beh, quando c’era lui, il nostro lui, arrivavano in orario. E così per i televisori, le automobili, i conti in banca, le scuole e le università e gli ospedali gratuiti: meccanismi funzionanti in un regime di repressione delle libertà e che in un’epoca in cui siamo lasciati liberi persino di dimenticare paiono mancare come il pane nel dopoguerra. Con la differenza che l’odio di chi soffre la fame, oggi, e non va a scuola né può permettersi le cure più elementari, non è rivolto a chi il pane glielo strappò via insieme alle libertà: ma a chi, invece, trasportando sacchi pieni zeppi di farina bianca, prometteva quel tanto agognato benessere dal nome democrazia. Finendo per rapinare, saccheggiare, stuprare, terrorizzare chi s’illudeva che uno straniero potesse davvero portare la pace dopo le atrocità di una guerra civile: e dando ragione a chi, nello straniero, non seppe mai scorgere altro che l’ennesimo colonizzatore insediatosi per fare razzie. Per distruggere, dimenticandosi di ricostruire.

E come liberarsi dai presunti liberatori, se non acclamando chi promette di risolvere il disordine d’una democrazia malata riportando l’Italia all’efficienza del fascismo, la Libia al vigore di Gheddafi?

Son tanti, al pensarci, i tratti comuni tra i due dittatori: abilissimi comunicatori, s’impegnarono nella costruzione della propria immagine con una cura da rasentare il fanatismo. Nei discorsi alla radio, nelle fotografie distribuite per le strade, al cinema e in televisione, il carisma che mai dovrebbe mancare a un leader s’addensava in una frase carica di retorica, un monito alle famiglie sull’educazione dei figli, ai compatrioti sull’odio per lo straniero, ai cittadini sullo sprezzo per le istituzioni, i parlamenti, le elezioni. In una foto a torso nudo scattata nell’atto di mietere il grano, e senza dare segno di sforzo, così come nei filmati di una partita a football in cui lui, il dittatore eclettico e talentuoso, teneva brillantemente testa a un’intera squadra di giocatori professionisti. Insomma, tanto s’assomigliarono nell’ossessione per la propaganda continua di chi teme di essere scalzato dal trono con la stessa violenza con cui, prima di lui, un altro capo osservava inerme il suo epilogo.

Non solo: la rivoluzione con cui entrambi arrivarono al comando – abusando dell’aura di eroismo che circonda la parola dei movimenti popolari, della liberazione dalle catene, della conquista delle libertà – altro non fu che uno studiato, vigliacco, disonesto colpo di stato. La mossa furtiva di ladri di potere che, in uniforme e con la minaccia degli eserciti, si ergono a liberatori del popolo e occupano il posto scaldato per secoli da governi via via più impotenti: e a cui basta una marcia messa in scena sulla capitale, o la furtiva uscita di ufficiali dalle caserme, durante la notte, ad occupare le sedi vacanti del potere precedente, per convincersi a farsi cacciare. E non è al re, in questi imbrogli che si dicono rivoluzionari, che si finisce per tagliare la testa: ma ai legittimi partiti politici, ai sindacati, alle associazioni. Insomma, a tutto il popolo brutalmente cancellato dalla narrazione d’una liberazione nata dal basso, e destinato a subire venti o quaranta o chissà quanti altri asfittici anni di tirannia.

Ma basta poco, talvolta, perché il mito del regime, della riconquista d’una gloria perduta, torni a brillare anche dopo decenni di repressione. Basta, ad esempio, che un altro furto di potere travestito da rivoluzione – e acclamato, festoso, come parola dei movimenti popolari e liberazione dalle catene e conquista delle libertà – non mostri la stessa faccia di usurpatore: non stupri le donne incredule d’esser finalmente emancipate, non bombardi le città illuse d’essersi fatte aperte, e non le lasci poi entrambe – le donne stuprate e le città bombardate – sole a leccarsi le ferite con null’altro che un vago sentore di democrazia appreso distrattamente alla radio, in tv, o nel bar di paese. E senza che nulla sia realmente cambiato: perché per gli ultimi, pei poveri, che la miseria sia patita sotto regime o sotto democrazia non fa differenza. E anzi, più difficilmente si perdona la povertà, e più insoffribile è il senso di fame, se la povertà e la fame sopravvivono alla guerra – loro diretta causa solo in parte –, e vengono ignorate dalla demenza ubriaca di una nazione risorta.

Finché il male presente non cancella il male passato, e anzi lo giustifica, lo banalizza, lo perdona. Forse, persino, lo rimpiange. E guarda con orrore a come propri nonni hanno saputo violentare il corpo morto del tiranno; e seviziarlo, e martoriarlo, quando ormai avrebbe fatto pena a un bambino.

Il ricordo di piazzale Loreto e gli innumerevoli selfie dei ribelli col cadavere di Gheddafi, a Sirte, quella stessa Sirte in cui oggi son tornati ad acclamarlo, sono strumenti pericolosi che rischiano di umanizzare il mostro: di ridurlo alla vigliaccheria dell’uomo comune che per timore della sconfitta si nasconde in un viadotto o, indossato un elmetto della Wehrmacht, si finge soldato e tenta la fuga. Strumenti che permettono di convincersi di quanto l’odio del popolo possa apparire bestiale, se non contestualizzato; di dimenticare ciò che gli italiani e i libici di qualche decennio fa giurarono di non dimenticare mai; di ridurre Gheddafi e Mussolini a due dittatori morti per uccisione violenta per mano dei loro antagonisti sostenuti da alleati stranieri: e quasi ingiustamente, ché quando c’erano loro si stava persino meglio. Insomma, di perdonare a quel corpo oltraggiato e brutalmente esibito le atrocità che popoli interi furono costretti a subire – e di guardarlo, e di compatirlo, con lo sguardo nostalgico di chi, dinnanzi al tiranno sconfitto, non vede altro che un uomo: e che dell’uomo al potere trascura distrattamente la crudeltà.